FALLO DI RIGORE

Un momento di riforma si nutre di un sogno o almeno di un grande progetto. Mentre le Camere stanno cercando di approvare i numeri della politica economica prodiana, e dunque molto è ancora in movimento, è possibile scattare una instantanea. Essa, per la verità, non racconta i timidi tentativi di liberalizzazione di inizio legislatura. Piuttosto fotografa un palazzo délabré con qualche spruzzata di vernice sui muri portanti. Non stupisce dunque che il sentimento degli italiani oggi sia di pessimismo. Ed in crescita.
Silvio Berlusconi ha peccato dell’opposto. Ha gridato al miracolo, mentre tutto intorno a lui cedeva: l’economia mondiale si stava lentamente riprendendo, la guerra faceva la sua comparsa e l’euro dispiegava il suo effetto sorpresa. Il suo governo adottava misure espansive. Politiche, come la riduzione delle imposte, che hanno però l’incorreggibile difetto di dispiegare i propri effetti con anni di ritardo: i venti miliardi di maggiore gettito fiscale sono figli di questo atteggiamento. Berlusconi ha pagato il suo ottimismo.
Ma ciò che è paradossale è che Prodi non riesca a capitalizzare questi risultati. Il clima, dice il Censis, vede un italiano su tre pessimista. Un angolo di visuale che ci impedisce di consumare, ci frena ad investire e che compromette la crescita.
Il programma economico di Prodi, così come scritto nei numeri di questa Finanziaria, ci ha infatti dipinto un quadro che non crea una corrente di ottimismo. Il nocciolo del rigore, del recupero di credibilità europea, di attenzione ai comportamenti del contribuente sono gli ingredienti con cui si sta cuocendo una pietanza davvero indigesta. E per di più con un nome in menù che non corrisponde al vero.
Il rigore si basa sul controllo della differenza tra spesa pubblica ed entrate (deficit), che deve scendere al di sotto del 3 per cento. Sull’altare di questo saldo si è costruita la manovra. L’esecutivo ci ha detto che il deficit scenderà, l’anno prossimo, al 2,8 per cento. La Commissione europea prevede che il paletto si fisserà al 2,9, ad un pelo dalla salvezza. Solo una settimana fa però gli uomini del Fondo monetario internazionale, in visita a Roma, ci hanno detto che il trasferimento di 6 miliardi dalle casse delle imprese all’Inps non si può considerare un’entrata strutturale (in buona compagnia con le agenzie di rating internazionale). Si tratta di uno 0,4 per cento da aggiungere all’ottimistico 2,8 del governo: insomma il risanamento su cui ci hanno rotto la testa non c’è.
Nel frattempo però pagheremo più bolli, più contributi, più tasse e subiremo più controlli. La compressione dei redditi dei nostri contribuenti, per le maggiori imposte, renderà inoltre la crescita economica italiana di un punto inferiore negli anni a venire rispetto a quella media europea. Il Censis certifica dunque qualcosa di facilmente immaginabile.
Qualsiasi governo che metta mano a riforme economiche e sociali può incontrare una prima pessima accoglienza da parte dell’opinione pubblica. La public choice americana (James Buchanan è un mago di queste teorie) ci ha spiegato, numeri alla mano, che «le mazzate» si danno ad inizio legislatura. Ma che siano tali, perbacco.

Staremmo con Prodi se gli italiani fossero pessimisti per l’approvazione di una vera riforma pensionistica, o per tagli seri della spesa pubblica, o per sfoltimenti «poco sindacali» della pubblica amministrazione.
Ma purtroppo siamo pessimisti perché dietro alla politica economica di Prodi non c’è nessun sogno, nessun progetto.

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