Cè qualcosa di sorprendente nellultimo saggio di Stefano Moroni, La città del liberalismo attivo, visto che si tratta di un volume sullurbanistica che sposa una prospettiva liberale. Un dato caratteristico del nostro tempo, infatti, è il permanere in ambito urbanistico del mito del «piano», miseramente fallito in economia e anche nelle altre scienze sociali. Mentre oggi farebbe sorridere proporre piani di produzione quinquennali come quelli della Russia di Lenin o di Stalin, in larga parte dellOccidente continuiamo a subire piani territoriali o paesaggistici comunque destinati a definire la gestione dei suoli: come se nulla fosse successo nellultimo secolo e come se il crollo delle società costruite dallalto non avesse avuto luogo.
La forza della ricerca di Moroni muove dal suo voler essere un urbanista consapevole della complessità delle interazioni sociali. E non a caso nella sua riflessione egli riserva tanta attenzione a un economista come Friedrich von Hayek e a un filosofo del diritto come Bruno Leoni: entrambi assai netti nel rilevare che la vita produttiva e le relazioni sociali hanno certo bisogno di regole, ma che esse non devono essere il prodotto di una decisione calata dallalto. Perché questo è largomento cruciale di chi, da liberale, si sforza di persuadere il proprio interlocutore della necessità di abbandonare le pretese totalitarie di quanti vogliono «governare la città» dimenticando che essa è veramente tale - lo spazio delle libertà e degli scambi - solo se non è governata da un sovrano o da un tecnocrate.
Moroni non propone di abolire i piani regolatori, importando dagli Usa la cultura di quelle città americane (Houston è la più nota, ma ve ne sono molte altre) che non hanno mai accettato la logica della «zonizzazione». Eppure egli riformula la pianificazione delimitandone rigidamente i confini e, in sostanza, affermando che essa può servire «solo per realizzare qualcosa di particolare (servizi o infrastrutture) in un ambito o settore circoscritto, creando obblighi per lamministrazione stessa piuttosto che per i cittadini». Essa dovrebbe quindi rinunciare alla pretesa di operare come una gabbia «nei confronti delle attività private, focalizzando la propria attenzione soprattutto sulla disciplina delle azioni pubbliche».
Tale riflessione nasce dalla frequentazione degli autori della cosiddetta «scuola austriaca» (da Menger a von Mises, a von Hayek) e dalla convinzione che la rappresentazione del mercato che ancora oggi prevale - quella neoclassica, basata sulla nozione di concorrenza «pura e perfetta» - sia assai deficitaria, soprattutto perché ignora il carattere dinamico (mai prevedibile e per nulla meccanicistico) delle relazioni che hanno luogo nei processi di adattamento spontaneo e interazione volontaria.
In un noto saggio degli anni 40, von Hayek rilevò che la dispersione delle conoscenze, a partire da quelle più «fattuali», è tale da rendere assai spericolato il progetto di una gestione centralizzata della vita economica.
Stefano Moroni, La città del liberalismo attivo (CittàStudiEdizioni, pagg. 208, euro 16).
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