di Paolo Liguori
Caro Direttore, ho appena finito di leggere l’intervista di Fini a Repubblica . Una marcia indietro inquietante, se si considera che attorno alla figura del presidente della Camera dovevano giocarsi le sorti di un intero ceto politico pronto al ribaltone. Repubblica è stata la cabina di regia del tentativo e, non a caso, è lo stesso giornale a dettare il «contrordine, compagni». Un minuto dopo questa riflessione, ho pensato di scrivere a te e ai lettori del Giornale . Come sai, ho lavorato a lungo in questa testata e sotto la direzione di Indro Montanelli, prima di prendere altre strade professionali. Sono dunque affezionato sentimentalmente a queste pagine e ho provato piacere tutte le volte in questi anni che da via Negri è arrivato un segnale positivo. Ricordo quando il grandissimo Indro tentò il colpo di svuotarlo completamente di contenuti e lettori e Paolo Berlusconi e Vittorio Feltri lo salvarono con passione e tenacia. Poi, ci sono state altrettante battaglie, che hanno visto in campo Maurizio Belpietro, Mario Giordano, te e tanti altri, sempre nell’interesse di tenere ben saldo un punto di vista diverso da quello egemone nella stampa italiana. Certo, non è stato l’unico, ma il più visibile e interessante, non fosse altro perché le posizioni del Giornale sono state spesso attribuite al presidente Berlusconi. Faccio il giornalista da troppi anni per conformarmi all’ipocrisia di chi sostiene che ciò sia un male per un giornale libero. Al contrario, avere una identità chiara, dare trasparenza alle opinioni, rende il nostro mestiere più pulito, più giudicabile, meno vago. Fin qui le mie osservazioni (e il mio tifo) da lettore di questo quotidiano. Sono affezionato però - forse anche di più- ai lettori del Giornale , di molti dei quali ho imparato a conoscere il sentimento, fin dai tempi di Montanelli. Per loro soprattutto sento l’impulso di scrivere, dopo aver letto Repubblica . Perché il Giornale , in tanti anni e con tanti direttori così diversi, ha sempre rappresentato l’esatto opposto del quotidiano fondato da Scalfari. E Dio sa se c’è bisogno di un punto di vista che si contrapponga a quella che è stata in questi anni la vera fabbrica dei veleni, la centrale dei linciaggi, la stanza delle torture di qualsiasi pensiero libero. Prendiamo ad esempio la retorica vuota e scomposta con cui vieneagitatoiltemadel150 ˚ anniversario dell’Unita d’Italia. Non ho nulla contro il patriottismo vero, sincero. Anzi, mi sarebbe piaciuto vederne ancora di più nelle occasioni in cui andrebbero difesi gli interessi italiani, compresi quelli economici all’estero, che pure hanno visto la nostra opposizione in forma assolutamente inedita alleata a quegli interessi stranieri disturbati dall’attività del nostro governo. Ma oggi non si tratta di vero patriottismo. Il tema dell’Unità è agitato come un manganello nei confronti di chi ha sostenuto in questi anni le ragioni del federalismo. Pura strumentalità, altro che amor di patria, con un inaccettabile paradosso che ci rende ridicoli al confronto degli altri Paesi europei. Prendiamo la Germania. Si guarda bene dal celebrare l’Unità del Paese come dato storico. Avrebbe l’imbarazzo di affrontare il tema del nazismo e la debolezza di 45 anni di divisioni tra Est e Ovest e di assoluta subalternità agli Usa (per fortuna che c’è stata: ich bin ein Berliner ) e all’Urss. Niente celebrazioni, la Germania ha fatto ripartire la sua storia contemporanea dal 1989, la caduta del Muro di Berlino. In 22 anni ha ricostruito la sua unità sostanziale, una cultura politica condivisa ed unlinguaggio comune sui temi più importanti. Da noi,l’esatto opposto. Dopo il crollo del comunismo, i partiti democratici hanno perso peso e hanno lasciato nascere una maggioranza liberale, a sinistra le divisioni ideologiche sono rimaste intatte, anzi rinfocolate dall’esigenza di sostenere l’opposizione. Mentre si tromboneggia sull’Unità d’Italia e si lavora per difendere e rafforzare il Muro Italiano: che non è tra Nord e Sud, ma ideologico tra liberismo e consociativismo, tra capitalismo e assistenzialismo, tra imprenditorialità e parassitismo, tra giustizia e giustizialismo. Basta guardare alle polemiche quasi drammatiche che caratterizzano una proposta normalissima come quella di Marchionne per la Fiat. Non ci sarebbe neppure bisogno di referendum in un Paese normale nel quale un’azienda globale propone le condizioni di un investimento economico. Qui invece si parla di ricatto e di sentimenti anti italiani e lo fa una sinistra che ha allevato e coccolato un sindacato come la Fiom, che non ha corrispondenti nel mondo moderno. Chi divide l’Italia sistematicamente da anni propone la gogna per chi è troppo tiepido sul Tricolore.
Cambiate le vostre certezze da barzelletta, accettate che le regole del lavoro e dell’istruzione si allineino al resto del mondo. Smettete di usare la giustizia come la Germania Est usava la Stasi. Abbandonate quel cascame del comunismo che ancora veramente adorate: la doppia verità, una per noi, i «diversi», e una per gli altri.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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