Cultura e Spettacoli

La fame dei vinti: 60mila gavette di rabbia

Ci sono sessantamila fantasmi nella recente storia d’Italia. Sessantamila morti chiusi in un archivio le cui chiavi sono in mano alla cattiva coscienza del nostro Paese. A Giulio Bedeschi occorsero diciotto anni per riuscire a pubblicare Centomila gavette di ghiaccio, accettato da Ugo Mursia dopo il rifiuto di tutti gli altri grandi della patria editoria. A Luigi Venturini, friulano, ex sottufficiale della Divisione Julia, ne sono occorsi cinquantasei per dare alle stampe nel 2002 la storia dei soldati e ufficiali italiani sterminati nei campi di prigionia sovietici dal 1943 al 1945. Sono quei sessantamila fantasmi. «Fummo fatti prigionieri in settantamila - dice oggi Venturini - e ritornammo in diecimila. Per anni si accettò la favola che quei sessantamila erano morti durante la ritirata». Perché fino ad un certo periodo era inopportuno rendere noto che nel paradiso socialista si facevano morire i prigionieri di guerra.
Solo dopo la caduta del regime comunista, quando si aprirono gli archivi del Kgb, il settore Onorcaduti del nostro ministero della Difesa riuscì a visionare decine di migliaia di cartelle dei prigionieri italiani e a rintracciare i nomi di quarantamila soldati morti in prigionia e sepolti in fosse comuni. «Sugli altri ventimila ignoti che mancano all’appello - dice ancora Venturini - solo noi sopravvissuti conosciamo la verità». Una verità che Luigi Venturini, classe 1922, non ha mai avuto il coraggio di rivelare a voce alle madri dei suoi commilitoni che gli chiedevano notizie dei figli, in quel dicembre del ’45, quando scese, scheletrico e coperto di piaghe, da una tradotta alla stazione di Mestre. Non aveva il coraggio di parlare ma non voleva dimenticare. «E così - racconta - dopo aver trascorso tutto il 1946 tra lunghe cure mediche, mi proposi di scrivere le memorie di quel triennio tremendo. Era il mio estremo omaggio agli amici morti. Eravamo partiti in nove da via del Bon a Udine, sono tornato solo io. Mi ero presentato al distretto di leva, il 15 gennaio 1941, avevo appena compiuto diciannove anni».
Come per Bedeschi, le memorie di Venturini rimasero a lungo nel cassetto. Che aria tirava, il reduce dai lager russi non ci mise molto a capirlo. «Quindici giorni dopo il mio ritorno a casa, si presentarono due partigiani, due ragazzotti col fazzoletto rosso e il mitra a tracolla. “Vedi di non inventarti storie - mi intimarono - sennò, se non ti hanno fatto fuori i russi, provvediamo noi”. Mia madre, poveretta, era terrorizzata». Poi gli anni trascorsero. «Quando la sera del 27 novembre 2000 vidi in televisione il presidente Ciampi in visita alle fosse comuni di Tambov, dove sono sepolti migliaia di prigionieri di guerra italiani, mi sono commosso fino alle lacrime. Finalmente. E pensare che i tedeschi fin dall’83 avevano sistemato e onorato i loro cimiteri di guerra in Russia. Da noi dei campi di prigionia sovietica non si è quasi parlato». Nel 2002 è uscito il libro di memorie di Venturini, La fame dei vinti. Diario di prigionia in Russia di un sergente della Julia (editore Gaspari, pagg. 171, euro 14,50). Titolo ispirato a Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa? «Niente affatto - risponde lui - il mio libro è uscito un anno prima». Non è un libro facile da leggere e Venturini lo sa. Contiene ciò che non ebbe il coraggio di raccontare alle madri degli amici morti «quando quasi mi vergognavo di essere sopravvissuto».
Luigi Venturini, radiotecnico responsabile dell’unica stazione radio del comando divisione, fu fatto prigioniero alla fine di gennaio 1943 a Valujki dove, dopo lo sfondamento del fronte sul Don, erano ripiegati i resti della divisione Cuneense e gli ultimi uomini della Julia, ignorando che la cittadina era già in mano russa. Il calvario dei prigionieri inizia da lì, nella gelida sera del 27 gennaio 1943, con 40 gradi sotto zero. Valujki, ma anche Podgornoje, Tambov, Rossosch, Buturlinowka, Arsh, Krinovaja, Elabuga: sono le tappe di massacranti trasferimenti, marce di centinaia di chilometri nella neve, compiute da uomini stremati, feriti, febbricitanti. «Davai, davai. Avanti, avanti, ci gridavano le guardie russe. Chi cadeva a terra veniva ucciso. Non c’erano camion per caricare feriti e congelati. Il 70 per cento dei soldati fatti prigionieri con me sono morti nei primi mesi del ’43». Per gli altri si apriva un inferno fatto di lager dove venivano uccisi dalla denutrizione, dalle malattie polmonari, dal tifo, dalla dissenteria. Un inferno di vagoni piombati dove giacevano ammucchiati uno sull’altro nel proprio sterco, accanto ai cadaveri di quelli che non ce l’avevano fatta, tormentati dalla fame, dalla sete, dai parassiti.
Il fondo dell’inferno fu Krinovaja dove, nel delirio della fame, tra i prigionieri cominciò a dilagare il cannibalismo. Ma episodi simili si verificarono anche a Podgornoje dove si trovava Venturini: «Mi ero accorto di un fumo acre, come di carne bruciata che usciva da una stufa - ricorda - e mi chiedevo che cosa potesse essere, dal momento che il pochissimo cibo che ricevevamo era soltanto pane nero e una specie di zuppa. Me lo dissero i compagni che si dedicavano alla sepoltura dei morti: a molti cadaveri mancava il cuore o il fegato. Il taglio era netto e non si poteva scambiare per una ferita».
Si può sopravvivere a tutto questo? «La prigionia - risponde Venturini - mi ha mostrato l’orrore della vita e il suo contrario. Io sono vivo grazie a una donna russa che mi raccolse con la febbre altissima perché avevo una polmonite doppia, mi caricò su una slitta e mi portò fino a Podgornoje dove fui ricoverato in quello che era stato un ospedale di retrovia della divisione Tridentina. Dopo la guerra, sono ritornato nei luoghi che ho attraversato da prigioniero, e l’ho cercata. Era morta ma ho saputo il suo nome. A lei ho dedicato il mio libro. “A mamma Fëkla Juchnevic e a tutte le madri russe a cui debbo la vita”. Queste donne furono meravigliose, divisero con noi - i loro nemici - il poco che avevano, quando fuggivamo dai campi in cerca di cibo. Una carità evangelica».
Un contrasto singolare, quello fra la durezza del trattamento che i sovietici riservavano ai prigionieri e la generosità dei civili. «Me ne sono chiesto anch’io la ragione - dice Venturini -. Ho spesso pensato che i nostri carcerieri ci volessero eliminare tutti. Credo ora che la nostra tragedia abbia avuto cause molteplici: la durezza obiettiva della situazione (gli inverni erano tremendi) e la durezza del carattere russo. Poi c’era l’odio ideologico verso “i fascisti”, la loro disorganizzazione dovuta sia alla guerra sia al regime, la mancanza di viveri, di mezzi di trasporto, di carburante...».
Venturini sopravvisse alla polmonite, al tifo, all’enterocolite, alla malaria, alle piaghe provocate dalla massiccia infestazione di pidocchi, all’anemia provocata dalla denutrizione. Sopravvisse alle urla dei morenti di cancrena, alle cataste su cui era costretto a buttare i poveri corpi disarticolati dei compagni morti. Sopravvisse anche alla tentazione di accettare la proposta di tornare in patria per un’azione di spionaggio contro il suo Paese. «I russi mi sottrassero tutto: abiti, oggetti personali, la foto dei miei genitori. Riuscii a salvare l’immaginetta della Madonna di Castelmonte che mia madre, sua devota, mi aveva dato al momento della partenza».
Il 4 dicembre ’45, cinquantatré giorni dopo la partenza dal campo di Elabuga, il sergente Venturini - 46 chili e le gambe gonfie per la distrofia provocata dalla denutrizione - attraversava il Brennero. I treni dei reduci erano accolti da una folla di padri e madri con fotografie in mano: scrutavano ansiosi le larve che scendevano dai vagoni. Da 35 mesi non sapevano nulla dei figli.
Non fu un ritorno facile per il sottufficiale della Julia. «La mia casa era diroccata per i bombardamenti, mio padre, brigadiere dei vigili urbani, era stato denunciato da un collega per collaborazionismo (parlava un po’ di tedesco) ed era stato prima incarcerato e poi epurato, non avevamo una lira. Ma io ero tornato. E quando, dopo le tradotte del gennaio 1946, fu chiaro che dalla Russia non sarebbe tornato più nessuno, decisi di mettere sulla carta la nostra storia, per ricordare almeno i miei otto amici partiti con me che erano rimasti là». L’atteggiamento del Paese ufficiale nei confronti dei reduci fu un misto di incredulità e di fastidio. «Nella primavera del 1946 l’atmosfera politica sconsigliava la pubblicazione di storie che potessero accusare l’Unione Sovietica. I miei appunti rimasero nel cassetto».
Per i tre anni di prigionia, al reduce furono assegnati tre anni di paga da sottufficiale. «Ma nell’estate del 1947 vennero i carabinieri con un documento che mi imponeva di restituire tutto al distretto militare di Udine. Andai a protestare. “Mancano i fondi”, mi risposero.

Avevo appena ricominciato a lavorare, restituii tutto a rate di mille lire al mese».

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