Altro che rivelazioni choc sulla «verità nascosta» delle stragi di mafia. Altro che Berlusconi con la coppola, e con lui Dell’Utri. Nell’orgia di commenti entusiastici per il muro di gomma mafioso abbattuto dalla trasmissione Annozero, nessuno s’è reso conto che i misteri aumentano e gli interrogativi pure. A partire da questo, apparentemente slegato alle inchieste di mafia sul premier: come mai mentre quattro procure cercano di chiudere il cerchio sul presidente del Consiglio, improvvisamente l’ex ministro Claudio Martelli sente il bisogno di dire che effettivamente lo Stato aveva avviato una trattativa con Cosa nostra? E perché ha rilanciato cose non dette esplicitamente in precedenza, come quella riferitagli riservatamente dall’ex collaboratrice di Giovanni Falcone, Liliana Ferraro, che raccontò di quando disse al giudice Borsellino del colloquio avuto con il capitano del Ros De Donno (che smentisce) a proposito della disponibilità di Vito Ciancimino a collaborare a fronte di garanzie politiche? Dopo l’immediato annuncio della sua convocazione in procura a Palermo, l’ex esponente socialista è corso a rettificare il tiro all’agenzia Ansa sostenendo che per «Stato», nella trattativa, lui non intendeva dire il governo, perché «Stato» sono anche i funzionari e i magistrati, ma soprattutto i «carabinieri». In questo caso, quelli del Ros del generale Mario Mori sospettato dai pm di essere stato vicino a Dell’Utri e Berlusconi per le cose siciliane. «Il Ros - osserva Martelli - non aveva alcun titolo per intavolare un’azione di persuasione e per interloquire a quel modo, spettava alla Dia. Da parte dei carabinieri può aver giocato una forma di presunzione o arroganza, del tipo, ora ve lo facciamo vedere noi come si combatte la mafia».
Dubbi, ancora dubbi. Se la signora Ferraro è stata anch’essa convocata in procura è segno che in tutto questo tempo l’ex collaboratrice di Falcone (oggi ai servizi segreti con Gianni De Gennaro) non ha trovato occasione per riferire quanto sapeva né al processo di Caltanissetta dov’è stata ascoltata, né ai magistrati che indagavano, e indagano, sulle stragi. I pm siciliani vogliono sapere da lei perché, se è vero quel che ha detto Martelli, parlò del colloquio di De Donno a Borsellino quando i titolari delle inchieste su Ciancimino e sul filone mafia-appalti e politica erano altri due magistrati, Lo Forte e Pignatone. Qualcosa sfugge. Perché se è vero che la Ferraro andò da Borsellino a raccontargli della trattativa, eppoi Borsellino si «oppose con tutte le forze» all’iniziativa del Ros che trattava con i killer di Giovanni, come mai solo tre giorni dopo il giudice decide di affidarsi proprio al Ros per svolgere indagini sul filone degli appalti considerato dallo stesso Borsellino una possibile concausa della strage di Capaci? E se è vero, com’è dimostrato in atti, che l’incontro Borsellino-De Donno-Mori avvenne nella caserma Carini di Palermo il 25 giugno del 1992 (la Ferraro avrebbe parlato a Borsellino dell’iniziativa del Ros il 23 giugno) è allora lecito ipotizzare che forse Borsellino non «si oppose con tutte le forze» alla trattativa intavolata da quelle persone a cui lui si affidava per trovare i killer di Falcone.
Ma torniamo a Martelli. Il 12 marzo 1998, per le accuse del pentito Angelo Siino sugli affari in comune con Raul Gardini, l’ex ministro viene preso a verbale dai pm di Caltanissetta, Giordano e Tescaroli. In dieci pagine racconta di tutto, ma nulla sulla trattativa. Idem nell’interrogatorio del 30 luglio ’99 dove Martelli fa solo un accenno alla dottoressa Ferraro, come depositaria non dei segreti della trattativa bensì dei ricordi della guerra Giammanco-Falcone.
Della «trattativa», per come l’ha raccontata ad Annozero, Martelli non ne ha parlato nemmeno nelle ultime interviste del 21 luglio scorso a Liberal e del 25 luglio a Il Tempo. «Ma ne ho parlato in precedenza, in altre due» ha spiegato l’ex ministro all’Ansa. Che ha ritrovato la memoria con enorme ritardo al pari di Luciano Violante, tirato in ballo da Ciancimino junior, convocato il prossimo 20 ottobre al processo Mori-Obinu. A fronte di chi ritrova improvvisamente la memoria, c’è chi la perde del tutto: è Antonio Di Pietro, che da Santoro ha sostenuto di non aver mai avuto a che fare con Ciancimino quand’invece, afferma la difesa degli ufficiali Mori e De Donno, è documentato un suo interrogatorio all’ex sindaco rinchiuso nel carcere di Rebibbia nel 1993. E ancora. Nel suo monologo sulla mafia ai tempi di Dell’Utri e Berlusconi, Marco Travaglio parla dell’esistenza di una lettera scritta da Provenzano a Berlusconi nel quale si promettevano appoggi politici in cambio di una televisione. Il pensiero riportato da Travaglio è lo stesso dei pm palermitani che confrontando la scrittura riportata nel foglio con la grafia di Provenzano, presto si sono però accorti dell’abbaglio preso. Rosalba Di Gregorio, avvocato del boss corleonese, conferma che quella non è assolutamente la scrittura del suo assistito. Persino Ciancimino junior ha ammesso d’essersi sbagliato nell’attribuirla prima al padre e poi al Padrino. Sbagliare è lecito, perseverare no. A meno che tutto non rientri in una strategia mediatico-giudiziaria di delegittimazione dell’avversario, sulla falsariga di quella che poi portò al suicidio il maresciallo dei carabinieri di Terrasini, Antonino Lombardo.
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