Il fantasma di Appiano si trasferisce al City

LA SFIDA Comincerà il 26 dicembre e si misurerà con il suo grande rivale Ancelotti

Mancini ha aggiornato il colore della sciarpa di cashmere. Bianco-celeste, adesso. Si mette al collo il Manchester City: arriva dove s’è sempre detto che sarebbe potuto arrivare. Due anni di abbocchi e mezze frasi, di trattative più o meno vere alimentate dal trasferimento del figlio che gioca nelle giovanili del city dal 31 gennaio del 2008 sulla scia di Eriksson. Si fa e si va: Mancini in Premier League come allenatore lui che l’aveva sempre detto: «L’Inghilterra mi interessa». C’ha giocato, brevemente, con poca fortuna, ci torna in panchina. Firmato un contratto multimilionario con i nuovi ricchi del pallone globale, gli emiri di Abu Dhabi che a parole hanno provato a prendersi Kakà, Messi, Cristiano Ronaldo, De Rossi, Drogba. Hanno convinto prima Robinho, poi Adebayor e Tevez, non proprio gli ultimi bidoni, ma neanche i numeri uno.
Mancini se ne frega, ora. I soldi sono soldi, anche se la questione non è questa. Uno che è rimasto stipendiato dall’Inter senza lavorare non ha bisogno di quelli. Voleva una panchina, voleva il campo, voleva i calciatori, voleva una squadra. Ha avuto una quasi grande con ambizioni da grandissima, al suo fianco Brian Kidd. Perché a Manchester, quelli del City vogliono arrivare a competere con lo United, quindi col Chelsea, con l’Arsenal, poi in Europa col resto del gruppo dei giro Champions. Hanno idee e moneta. Adesso anche un nuovo allenatore che arriva dopo che il club ha fatto fuori Mark Hughes: non basta il sesto posto in classifica e neanche la vittoria contro il Sunderland di ieri. Licenziato perché chi ha speranze da scudetto o qualificazione in coppa non accetta l’idea di essere a undici punti dal primo posto e a 8 dal secondo. Mancini arriva in un posto che sembra l’Italia, allora. Altro che mentalità diversa, altro che possibilità di pianificare: questi vogliono i risultati. Subito. Pagano e pretendono. Non si aspetta niente e nessuno. Mancio è perfetto perché di aspettare non ne ha alcuna intenzione: si è riposato abbastanza, si è disintossicato a sufficienza.
Comincia subito. Comincia mentre l’Italia avrà ancora la tavola imbandita per pranzi e cene natalizie. Comincia il 26. Cioè Boxing Day, come gli inglesi chiamano il giorno di Santo Stefano. E quante volte l’aveva detto? «Adoro la mentalità inglese, il fatto che si giochi per la gente, anche durante le festività». Servito, Mancio. Servito anche Mourinho che si toglie dalle scatole uno che anche senza volerlo poteva rappresentare una minaccia. Va dove José tornerà prima o poi, come ha detto. Si vedranno forse. Oppure il destino farà fare un altro incrocio di andate e ritorni senza incontri. Dipende da Mancini. Quanto resterà, che cosa farà, quanta autonomia avrà. Il City vuole vincere, lui pure. Vale di più dell’Inter in questo. Perché Milano nerazzurra non vinceva da una vita ed è tornata a farlo col Mancio aiutato dalla giustizia sportiva.
Il City, invece, non ha mai vinto. Secondo in città sempre: vittima di un complesso di inferiorità mostruoso e di un’esistenza fatta di umiliazioni e privazioni. Costretti a guardare vincere lo United, condannati a sentirsi insignificanti, sbagliati, diversi. Adesso no. Dicono che i piani parlano di un paio di stagioni per arrivare in cima a qualcosa: campionato o coppe è indifferente. Prenderanno altri giocatori, sicuro.

Mancini arriva per trasformare dei perdenti perenni in vincenti. Coi soldi degli arabi, certo. Con lo stile suo. Quello che piace oppure no. Quello che fa discutere. Quello che forse non conosciamo nemmeno. Magari a vederlo da lontano lo capiremo di più.

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