Difficile, impossibile non fermarsi col fiato sospeso. Difficile non pensare, non temere il peggio, non guardare indietro alla Spagna dell11 del marzo 2004. A quella Madrid trafitta al cuore da dieci esplosioni in rapida successione, su tre treni affollati di pendolari, allora di punta: 192 morti, 1.427 feriti. Dalle 7.30, una dopo laltra, dieci bombe (ma ne erano state piazzate tredici) esplodono in tre stazioni ferroviarie, tra cui due ad Atocha, snodo fondamentale per il traffico cittadino, colpendo convogli carichi di pendolari, due treni regionali e un superveloce.
Una strage che aveva fatto ipotizzare un rigurgito violentissimo e inatteso dei separatisti baschi dellEta, ma giusto per il breve tempo necessario a ricevere la spietata rivendicazione degli estremisti islamici.
Lattentato arriva quando mancano quattro giorni alle elezioni politiche. Il Paese è nel caos. Il Partito popolare del premier José Maria Aznar, come la maggior parte delle altre formazioni politiche, sospende la campagna elettorale. Il premier convoca una riunione urgente del gabinetto di crisi al Palazzo della Moncloa, e in un messaggio radiotelevisivo annuncia: «Li sconfiggeremo, il terrorismo non farà cambiare le nostre posizioni».
Due anni dopo lincubo terrorismo resta palpabile nel Paese, costretto a convivere da sempre anche con lincognita di uneversione di casa, quella dellEta, che molti vorrebbero neutralizzare in modo definitivo (dagli anni Cinquanta, quando fu fondata per ottenere lindipendenza politica della comunità basca, si calcola che le vittime delle azioni terroristiche siano state più di 2.000).
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