"Farabutto", quell'epiteto retrò così poco offensivo

«Erano ingiurie semplici, brutali, da uomo, come: “canaglia”, “farabutto”, “mascalzone”, che in fondo non fanno male a nessuno». Così, nei suoi Racconti romani, Alberto Moravia riduce «farabutto» a un’ingiuria di peso leggero, che non ferisce a fondo, lasciando caso mai solo qualche livido. Un’ingiuria molto borghese, si potrebbe addirittura dire decorosa, composta. Che esprime sì una severa condanna, per lo più morale, ma con linguaggio né volgare e né sguaiato. Una ingiuria in redingote, oggi in doppio petto. E dunque più che prevista sulle labbra di Silvio Berlusconi. D’altronde è questione di stile: c’è quello ruspante e cabarettistico di Antonio Di Pietro e c’è quello del Cavaliere, uomo capace di furie, incline anche a parlare fuor dai denti, se occorre. Però ricorrendo a un vocabolario mai screanzato, usando parole sulle quali il tempo ha deposto una patina che ha finito per toglier loro l’asprigno. Non che «farabutto» sia diventato un complimento, questo no. Seguita a significare, nella sua bella accezione ottocentesca, «uomo tristo» e in quella più spiccia dei tempi nostri persona sleale e senza scrupoli, capace di azioni disoneste e, dunque, spregevole.
Fra tutte le etimologie avanzate, quella che più convince è senza dubbio il termine olandese - vrij-buiter, tanto per essere precisi - che sta per predone, per brigante. Non un complimento, dunque. Tuttavia, nel sonetto I trentacinque anni, Giuseppe Giusti accomuna il farabutto al «grullo, l’ebete, il porco beato e lo spensierato» i quali, a differenza del poeta, «fanno in pace i lor fatti o belli o brutti. Ed hanno tempo di ripigliar fiato». Non è certo una gran consolazione trovarsi in compagnia di grulli, di ebeti e di porci beati, chiunque essi siano, ma sta di fatto che anche in questo caso il farabutto è compreso in una cerchia di sicuro riprovevole, però non fetentissima, come direbbero i napoletani.
Non vorrei dar qui l’impressione di minimizzare la portata dello schietto (e sconsolato) j'accuse del Cavaliere. Un farabutto è un farabutto. E quando Berlusconi dice che ci sono troppi farabutti in politica, stampa e tv egli sa quel che dice (e se è per questo lo sappiamo bene anche noi che in quegli àmbiti la concentrazione di farabuttaggine ha superato il livello di guardia). Quel che s’intende sottolineare è che la scelta dell’attributo riverbera l’assenza di acredine, di odio - velenosi sentimenti dei quali si nutre invece l’antiberlusconismo - nell’animo di Berlusconi. Non è il nostro caso, ma del farabutto lo si dà anche con benevolenza (valga l’espressione «simpatico farabutto») e in certi casi con un sentore di ammirazione (è il caso dell’osservazione di Somerset Maugham, in questa occasione scopritore dell’acqua calda, secondo il quale «più un uomo è farabutto, più le sue amanti gli sono affezionate»).
Insomma, anche stavolta Silvio Berlusconi l’ha imbroccata scegliendo una contumelia forse un po’ retrò, ma comunque sempre efficace. Con l’aggiunta di un aggettivo, l’allora cardinal Joseph Ratzinger ne annichilì addirittura la personalità di un gigante del male.

Quando, riferendosi a Hitler, scrisse che fu sì prigioniero di un vortice demoniaco, ma tutto sommato si trattativa di un «banalissimo farabutto» (mentre quelli indicati da Berlusconi non sono, ahiloro, nemmeno banali, ma farabutti a tutto tondo).

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