La farfalla Ali nella rete del mostro

Muhammad Ali ha attirato l’attenzione di un mucchio di gente diversa per un mucchio di ragioni diverse da quando, quasi due decenni fa, è diventato una superstar dei media e una presenza nazionale esplosiva... E ha attirato anche la mia attenzione, per ragioni che sono passate da una specie di divertito cameratismo iniziale a un’ammirazione diffidente, poi alla simpatia e a un nuovo livello di rispetto personale, seguito da un tuffo in un tipo diverso di diffidenza che era più esasperazione che ammirazione... Ma tutte queste emozioni affiorarono in superficie e si combinarono tra loro solo quando venni a sapere che l’incontro con Leon Spinks era un «riscaldamento» per il suo canto del cigno da sedici milioni di dollari contro Ken Norton. Questo fu il momento in cui il mio interesse per Ali passò quasi inconsciamente a un livello superiore. Avevo assistito a tutti gli incontri disputati da Spinks alle Olimpiadi di Montreal del 1976, e ricordo che rimasi impressionato al punto da provare soggezione per il modo in cui Leon attaccava e annientava chiunque incontrasse sul ring. Non avevo mai visto un giovane pugile sferrare ganci destri e sinistri con il busto leggermente spostato in avanti ed entrambi i piedi piantati a terra.
Probabilmente Archie Moore fu l’ultimo grande pugile con quella rara combinazione di potenza, riflessi e notevole istinto tattico che qualsiasi pugile deve avere per rischiare senza pericolo di impegnarsi completamente, anche se per pochi istanti... Ma Leon lo faceva continuamente, e nella maggior parte dei suoi incontri non ha fatto altro.
Era puro stile kamikaze: il Tripode Ambulante, per così dire, con le gambe di Leon che formano due piedi del tripode e il corpo del suo avversario che forma il terzo. Questo è interessante almeno per due ragioni: (1) se il pugno di Leon non raggiunge il volto o il corpo dell’avversario, non ci sarà alcun tripode, e un tale colpo a vuoto può portare a conseguenze catastrofiche o demoralizzanti, o come minimo a un’alzata di sopracciglia e forse anche a un debole sorriso tra i giudici a bordo ring... ma (2) se il pugno raggiunge in pieno il suo bersaglio, allora ecco formarsi il tripode e una scarica di energia quasi soprannaturale si sprigiona dal punto dell’impatto, soprattutto se il malcapitato bersaglio è costretto alle corde e ha la testa abbassata e nascosta dietro i guantoni - come nel caso del rope-a-dope (tecnica pugilistica basata sull’idea di lasciar sfogare l’avversario ndr) di Ali.
Un pugile che pianta entrambi i piedi a terra e si sposta con il busto in avanti per sferrare un gancio ha tutto il peso e anche il baricentro dietro; a questo punto non può tornare sui suoi passi e se manca il bersaglio non solo perderà punti per manifesta goffaggine, ma scoprirà il volto per una di quelle combinazioni martellanti e ravvicinate che di solito finiscono con un KO. Questo era lo stile di Leon ai giochi olimpici, uno spettacolo terrificante cui assistere. Non doveva far altro che costringere il suo avversario in un angolo e sferrargli un paio di quei rintronanti pugni tripodi nel primo round. E quando vieni intontito e intimidito a quel modo nel corso del primo round in un incontro (olimpico) al meglio dei tre round, non hai abbastanza tempo per recuperare... e ti passa anche la voglia di farlo quando cominci a pensare che il bruto che ti hanno costretto ad affrontare non ha la retromarcia e attaccherebbe indistintamente un uomo o un palo del telefono.
Pochi pugili possono reggere un simile attacco furibondo senza indietreggiare e mettere a punto una nuova strategia. Ma non c’è tempo per mettere a punto una nuova strategia in un incontro di tre round, e forse neppure di dieci, dodici o quindici, perché Leon non ti concede molto tempo per riflettere. Lui avanza, attacca e colpisce senza sosta; e quando porta il busto in avanti per trovare il terzo piede del tripode, può sferrare tre o quattro pugni da entrambe le direzioni. D’altra parte, quei poveracci che Leon disintegrò alle Olimpiadi erano dilettanti... ed è un grande peccato per tutti noi che era nella categoria dei mediomassimi quando vinse la Medaglia d’Oro. Qualche chilo in più e se la sarebbe vista con l’elegante campione dei pesi massimi cubano, Teofilo Stevenson, che lo avrebbe suonato come un gong per tutti e tre i round. Ma Stevenson, campione olimpico dei pesi massimi nel 1972 e nel 1976, e l’unico pugile moderno della categoria con la capacità fisica e mentale di competere con Muhammad Ali, ha deciso, per ragioni note soltanto a lui e a Fidel Castro, di restare il «campione del mondo dei pesi massimi della boxe dilettantistica» invece di tentare l’ultimo grande salto per battersi contro Muhammad Ali e diventare il Campione.
Qualunque sia la ragione che spinse Castro a decidere che un match tra Ali e Stevenson - tra il 1973 o il 1974, quando Muhammad aveva conquistato i cuori e le menti del mondo intero sconfiggendo Foreman in Zaire - non era né nel suo interesse, né in quello di Cuba né in quello di Stevenson stesso, resterà per sempre avvolta nella nebbia oscura della politica. Ma la gente come me resterà con la convinzione che ai due più grandi artisti dei pesi massimi del nostro tempo venne impedito di incontrarsi su un ring per colpa di quelle stesse priorità politiche da due soldi che hanno rovesciato quintali di merda su tutti i principali problemi di questa generazione. Questa è una di quelle opinioni personali che persino i miei amici dell’«industria pugilistica» considerano le farneticazioni svitate di uno scrittore furbetto che se la cava egregiamente con le droghe, la violenza e la politica elettorale, ma che proprio non riesce a entrare nel loro mondo.
Le stesse persone mi sorrisero con indulgenza quando dissi, a Las Vegas, che avrei accettato qualunque scommessa su Leon Spinks vincente dieci a uno, e se avessi trovato qualcuno seriamente interessato sarei stato disposto a scendere fino a cinque a uno, o forse anche quattro... ma persino scommettere su Spinks otto a uno a Vegas era un’impresa che oscillava tra il difficile e l’impossibile. Gli «esperti» di qualsiasi campo hanno una caratteristica comune: non punteranno mai denaro o altro su qualcosa che potrebbe rivelare al mondo quelle che considerano le loro convinzioni, qualunque esse siano. È per questo che sono «esperti». Hanno attraversato con disinvoltura quel campo minato fatto di rischiose responsabilità che separa i politici dagli scommettitori. E una volta raggiunto lo stadio in cui potete considerarvi esperti, il modo migliore per restarci è dribblare ogni scommessa, pubblica o privata, così artisticamente che nulla potrà rovinare la vostra preziosa reputazione, a meno di un evento così bizzarro che potrebbe passare per una «calamità naturale». Per esempio, ricordo perfettamente quanto rimasi deluso in Zaire dal rifiuto di Norman Mailer di scommettere sulla sua convinzione pressoché certa che George Foreman era troppo forte per Muhammad Ali... E ricordo anche il ceffone che un giornalista sportivo della Associated Press mi sferrò al petto mentre un pomeriggio, al bar del casino dell’Hilton di Vegas, si discuteva sull’incontro. «Leon Spinks è un nanerottolo pietoso», ringhiò tra i denti a tutti gli altri esperti che quel pomeriggio si erano riuniti per scambiarsi le proprie opinioni. «Ha le stesse possibilità di diventare campione del mondo dei pesi massimi di questo qua». «Questo qua» ero io e, per sottolineare la bontà della sua affermazione, il giornalista dell’AP mi sferrò un manrovescio allo sterno...
*** *** ***
«Nessun vietcong mi ha mai chiamato “negro”». Quando Muhammad Ali pronunciò questa frase, nel lontano 1967, quasi finì in prigione... e questo spiega tutto quanto ci serve sapere al momento sulla giustizia e stronzate varie nella Casa Bianca.
Qualcuno scrive romanzi, altri arrivano abbastanza in alto da diventare protagonisti di un libro, e qualche folle prova a fare entrambe le cose... ma Ali a stento sa leggere, figurarsi scrivere, e così quando tempo fa si ritrovò davanti a questo bivio, ebbe il raro istinto di trovare una falla nella difesa che gli permise di scegliere una terza possibilità: sbarazzarsi completamente delle parole e vivere nel suo film personale. Una specie di Jay Gatsby scuro - non nero, ma con una testa che non sarebbe mai stata bianca. Sin dall’inizio Ali è stato guidato da quello stesso istinto che possedeva Gatsby - un fascino infinito per quella luce verde all’estremità del molo. Aveva camicette per Daisy, un ascendente magico su Wolfsheim, un delicato e pericolosamente vulnerabile accostamento Ali-Gatsby per Tom Buchanan e nessuna risposta per Nick Carraway, il divoratore di parole.
A questo mondo ci sono due tipi di contrattaccanti: uno impara da subito a vivere delle sue reazioni e dei suoi riflessi veloci; l’altro - quello che adora la bella vita - ha il talento di trasformare in arte di aggressione quello che fondamentalmente è lo stile difensivo del Contrattaccante.
Un giorno di tanti anni fa, poco dopo il suo ventunesimo compleanno, Muhammad Ali decise che sarebbe diventato non solo il Re del Mondo della sua zona, ma l’Erede al Trono di qualsiasi altra zona... E questo è un modo di pensare molto, molto alto... anche se l’obiettivo non viene raggiunto.

La maggior parte della gente non è in grado di gestire quella che sceglie o è costretta a chiamare la propria zona; e sono pochi coloro che di solito hanno abbastanza giudizio da non sfidare troppo la sorte. Questa è la differenza tra Muhammad Ali e tutti noi. Venne, vide e anche se non vinse totalmente - ci è arrivato più vicino di chiunque altro nel corso di questa generazione funesta.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica