Il fascino del gioco: duro come la vita

«Meglio i ragazzi delusi dagli altri sport: per i nuovi compagni daranno l’anima»

Dovreste vederli, i bambini che arrivano a giocare a rugby. E capireste in un attimo perché questa stupida lotta in mezzo al fango per conquistare una palla ovale è il più incredibile, ineguagliabile sentiero per accompagnare un ragazzino nell’accidentato cammino verso la maturità. Capireste che non c’è bambino che non sia fatto per il rugby.
Io alleno i bambini da quando una norma federale crudele e illiberale mi ha costretto a smettere di giocare per raggiunti limiti d’età, proprio quando iniziavo forse a capirci qualcosa. Mi sono passati per le mani bambini un po’ di tutti i tipi. Non tutti, naturalmente, erano dei casi disperati. Anzi, negli ultimi tempi si è infoltito l’afflusso del classico Bambino Polisportivo, quello che qualunque cosa faccia eccelle senza sforzo, come se il suo dna fosse finalizzato unicamente alla pratica sportiva. Sono quelli che fanno la gioia di ogni allenatore, gli spieghi un esercizio e lo capiscono al volo, vengono due volte ad allenarsi e già si muovono come se non avessero fatto altro nella vita. Magari hanno visto la nazionale in tivù, gli è scattata una qualche sinapsi, e hanno deciso di provare con il rugby. Nel giro di un attimo sono già dei piccoli Bergamasco.
Ma non sono quelli che piacciono a me. A me piace il nerd, l’emarginato, quello che arriva al rugby per disperazione dopo avere provato di tutto, e che ogni volta è stato respinto, confinato in panchina, sbeffeggiato. Ti capita al campo un venerdì sera che piove, visibilmente recalcitrante, trascinato dal padre che ti biascica qualcosa sul motivo per cui sono arrivati lì. Lui sta un passo indietro, con la sua borsa che porta i lividi di tutti i fallimenti, e mentre ti presenti e gli dici due parole di circostanza ti ascolta con l’aria di uno che quelle balle le ha sentite troppe volte. Non sa che in quel momento la sua vita sta cambiando per sempre. Non è un cammino facile. C’è da vincere la paura del contatto fisico, c’è da capire che un placcaggio fatto bene manda al tappeto anche un avversario grosso il doppio di te perché - come insegnava Jimmy Cliff - più duro entrano e più si faranno male cadendo. C’è da capire che se hai un po’ di pancia e a scuola ti chiamano cicciobomba, su un campo da rugby quei chili in più li potrai usare come clava. C’è da passare bene questa strana palla, c’è da andare bene in sostegno e risollevarsi senza piangere dopo una botta. Ma c’è soprattutto da capire che si vince e si perde tutti insieme, il brocco e il campione, chi suona il piano e chi lo trasporta.
I bambini lo capiscono in fretta, così come imparano in fretta a giocare a rugby: perché il rugby è istinto puro, avanzamento e sopravvivenza. Entri in uno spogliatoio di ragazzini che due mesi fa neanche si conoscevano, e senti già quel refolo strano nell’aria, la complicità che fuori si chiamerebbe magari branco, e che qui vuol dire solo sapere che il compagno non ti lascerà solo.

Per riuscirci la strada è una sola: tutti in campo, nessuno a marcire in panchina, diamo l’anima e chi se ne frega se vinciamo o perdiamo, per questo c’è una vita davanti. Anche questo i bambini lo capiscono in fretta. I genitori no, fanno più fatica, e magari vengono anche a brontolare con l’allenatore. Ma non è colpa loro. Hanno solo visto troppe partite di calcio.

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