Il fascino indiscreto della aristocrazia: evitare lo snobismo

Le grandi famiglie romane sono sempre state ruspanti, avventuriere e vicine al popolo. Altro che i radical chic

Il fascino indiscreto della aristocrazia: evitare lo snobismo

Mentre l’Italia si accinge a festeggiare i 150 anni della sua nascita, la famiglia Ruspoli ha festeggiato in Campidoglio tra cardinali, militari e ambasciatori, i suoi Mille anni a Roma. Se davvero la bandiera nazionale degli italiani, come diceva Leo Longanesi, è nel motto «Ho famiglia», il compleanno di una famiglia antica fa più sangue e più storia dell’anniversario dello Stato unitario. Scherzo, ma non tanto. L’Italia è fondata davvero sul familismo, dall’imprenditoria alle professioni fino all’università; è la nostra virtù e il nostro vizio antico, comunque la nostra identità e l’architrave della nostra società.

Ma l’anniversario della famiglia Ruspoli ci permette di parlare non solo di famiglie, ma anche di tradizione, romanità e ruolo della nobiltà. Sarebbe facile soffermarsi su sante e condottieri di casa Ruspoli, eroi di guerra ad El Alamein e poeti del casato. Invece preferisco toccare altri versanti e altri soggetti, all’apparenza più stravaganti e meno significativi, per un piccolo viaggio nella grande nobiltà romana. Nobiltà nera, per giunta, cioè vissuta all’ombra di Santa Romanesca Chiesa. Confesso un debole per don Alessandro Ruspoli che campeggia nella copertina del libro firmato da Fabrizio Sarazani e aggiornato da Fulvio Stinchelli, riedito da Lucarini (I Ruspoli. Mille anni a Roma, Pagg. 170, euro 19). Don Alessandro, con la benda nera all’occhio, era un nostro contemporaneo, visse in pieno Novecento, Repubblica inclusa. Ma se lo vedete nelle foto sembra evaso dal Quattrocento o disceso da una tela antica, vestito nell’antica uniforme, antenato di se stesso. E il suo vestire coincideva con il suo pensare. I reali Savoia, al suo cospetto, sembrano dei parvenu nella foto che li ritrae con lui, Gran Maestro del Sacro Ospizio Apostolico.

Della nobiltà romana non gli mancava nulla, dalla caccia alla passione per le donne, dall’amicizia col diavolo d’Annunzio a quella con l’Acquasanta papalina, e parlava con quel dialetto romanesco ingentilito dal casato. Con i Savoia Re d’Italia aveva in comune solo la passione per le donne. Annota Sarazani, riferendo ironicamente un passo della Gazzetta Ufficiale in difesa di Vittorio Emanuele II: «Il Re ama le donne! Saremo noi italiani, il popolo innamorato per eccellenza che crederemo grave una simile accusa. Il Re ama le donne! Ce ne rallegriamo perché non avremmo voluto certamente che l’eletto della nazione mancasse della dote a cui ogni italiano tiene sopra ogni cosa». Parole entusiasmanti per il nuovo «eletto della nazione», Re Silvio...

Il felice anacronismo di don Alessandro riverbera anche in altri ritratti dei Ruspoli, come la principessa Marianita dal linguaggio arcaico di secoli passati, o Dado Ruspoli, il viveur della dolce vita che ispirò anche Flaiano, Fellini e la parodia di Totò; o Lilio Sforza, il principe contadino in guerra contro i poteri forti e le banche; o don Giovanni che raccomandava al suo autista sanciopanza di andar piano «perché grazziaddio, ho molto tempo da perdere». Giovanni senza fretta, eroe della nobiltà romanesca flemmatica e inoperosa. Ma attraverso i Ruspoli emerge sorniona Roma antica e godereccia, nobiliare, piaciona e devota. Rivedi la naturale dimestichezza con l’eterno, il sacro che coabita con il sarcasmo, rivedi la pinguedine grandiosa e le arcaiche flatulenze della vecchia Roma, di cui scriveva Manganelli. Dai ragione a Flaiano che dopo aver trovato a Bologna davanti a San Petronio un cartello che vietava di portare le biciclette in chiesa annotava: a Roma invece avrebbero affisso un cartello che vietava di riparare le ruote in chiesa... Ironica notazione per significare la familiarità della vita quotidiana dei romani con la chiesa, quell’odore domestico di santità alla vaccinara che ricorda gli angoli di Roma papalina ove trovavi l’edicola di una Madonna o la luce di una mignotta; e a volte le due cose insieme... Roma che non giudica ma assolve, Roma dove pure la corruzione era a conduzione famigliare e non c’era la grande criminalità del nord o del sud, anche se una certa facilità al coltello imperversava nei secoli passati e non solo nelle bettole della Roma popolana ma anche tra i nobili, Ruspoli inclusi. Ma di quella nobiltà va salvata la famigliarità con il popolo, l’uso comune del dialetto, la confidenza con i propri stallieri, contadini e inservienti.

Il nobile allevia la naturale distanza tra sé e gli altri; lo snob al contrario accentua l’innaturale distanza dagli altri... Il vero aristocratico mette ad agio gli altri. Tratto universale della nobiltà; raccontava Virgilio Lilli che ad una cena tradizionale in Giappone da una famiglia di nobili samurai, scalzi intorno a un tavolo, si accorse di avere un calzino bucato. Senza farsene accorgere, tutti gli aristocratici giapponesi si forarono il calzino per non far sentire a disagio l’ospite... La nobiltà è fatta di queste piccole cose, oltre che di follìe, coincidenza di etica ed estetica nello stile, mania di grandezza e ipersensibilità su alcuni dettagli e noncuranza su alcune utilità. Nobile è contrazione aristocratica di non abile, per l’inattitudine gentile alla vita praticona. La nobiltà si autodistrusse, tra vizi e inconcludenze, incapacità di capire i tempi e coloriti orgogli. Ma lasciò opere, mecenatismo, palazzi, cappelle, e uno strascico di mitici ricordi, fascinose assenze, odori d’incenso e profumi delicati. Cosa lasceranno le nuove aristocrazie, gli snob (Panfilo Gentile riconduceva l’etimo a sine nobilitate) che sono spesso state l’imitazione ignobile di quel mondo? I nuovi potenti sono spesso la caricatura della nobiltà, con i loro Palazzi, i loro Salotti Buoni, i loro familismi, le loro fisime radical chic, e perfino alcuni vizi della nobiltà (fumerie incluse); ma senza la loro magnanima e magnifica sontuosità, il folle candore anacronista, l’amore fiero e puerile per la tradizione e la grazia anche nel naufragio. La sconfitta della nobiltà evoca la nobiltà della sconfitta.

Sarazani immagina alla fine del suo libro che si animi l’affresco dei Ruspoli e sfili nel loro Palazzo un corteo di secoli e di antenati, per poi richiudersi il grande portone, «molto contenti di essere morti». Dei fantasmi della nobiltà certo non si vive, ma della volgarità di massa si muore, e nel brutto.

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