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Il fascino mistico di Wildt, scultore fuori dagli schemi

Non volle appartenere a nessuna avanguardia o corrente. Le sue opere sono ancora attuali

Il fascino mistico di Wildt, scultore fuori dagli schemi

Wildt è stato uno dei più grandi scultori italiani del Novecento. Lo affermo da tempo, con una convinzione che nasce non solo dalla conoscenza diretta della sua opera, ma dal riconoscimento della sua unicità. E tuttavia, per decenni, il suo nome è rimasto ai margini. Non perché fosse meno dotato di altri, non perché meno innovatore o meno profondo, ma perché non si è mai piegato alle logiche del gusto, alle correnti, alle aspettative. Troppo personale per aderire a un movimento. Troppo consapevole per cercare approvazione. Nella Milano in cui lavorava, e più in generale nell'Italia attraversata tra fine Ottocento e i primi decenni del Novecento dalla Scapigliatura lombarda, dal Realismo e dal Simbolismo e, più tardi, dal "Novecento Italiano" sarfattiano, Wildt scelse di non aderire ad alcuna corrente. Non per esclusione, ma per scelta. La sua ricerca procedeva altrove, in un territorio intimo e isolato, dove ogni opera nasceva da una pressione interiore e da una disciplina formale quasi ascetica. Le sue sculture non cercano la bellezza. La mettono in discussione. Sono corpi, e più ancora volti, che non si offrono allo sguardo ma lo interrogano, lo turbano, lo mettono in crisi. Il marmo, per Wildt, non è mai puro virtuosismo tecnico, anche se la sua tecnica è straordinaria, ma superficie interiore, pelle viva. I suoi volti non sono ritratti in senso classico. Sono strutture mentali, simboliche, cariche di attrito. In sculture come La maschera del dolore (1909) o Santa Lucia (1926) non c'è racconto. C'è costruzione, rigore, forma che si fa idea. Il volto, per Wildt, è un tema ossessivo che attraversa tutta la sua opera come un motivo ricorrente, in equilibrio tra astrazione e presenza. Penso alla Trilogia del silenzio Il silenzio (1910), Il pensiero (1913), La parola (1915) tre opere diverse, ma legate da una stessa concentrazione. Qui si rivela con chiarezza la sua idea di scultura. Non un gesto, ma una soglia. La materia non si esaurisce nel marmo. Si fa mentale, introspettiva. Wildt non appartiene al suo tempo, ed è per questo che parla al nostro. Non aderisce a un'estetica dominante, ne costruisce una tutta sua, nutrita da riferimenti altissimi: Michelangelo, Canova, Beardsley, l'Espressionismo tedesco. Eppure non si confonde con nessuno. Tutto ciò che assorbe è trasformato, interiorizzato, mai citato. La sua è una lingua scultorea colta, solitaria, originale. Come ha mostrato Paola Mola, la forma in Wildt non è imitazione, ma concentrazione interiore. Ada Masoero ha sottolineato come la sua posizione appartata lo renda un artista non classificabile e, proprio per questo, radicalmente moderno. Simbolismo, decadentismo, spiritualità, tragico, tutto confluisce in un'estetica senza decorazione, in cui nulla è superfluo. Troppo formale per le avanguardie. Troppo visionario per l'accademia. Troppo simbolico per il realismo. Ma è in questa eccedenza che risiede la sua forza. Wildt ha seguito una linea autonoma, rigorosa, senza concessioni. Un percorso isolato, ma lucidissimo. Come molti artisti del suo tempo, ha incrociato il potere. È stato accostato al fascismo, ma senza adesione. Ha modellato un celebre ritratto di Mussolini, è vero, ma senza partecipazione ideologica. Quel volto, irrigidito, non celebra. Al contrario, cristallizza. È una maschera vuota del potere, non il suo trionfo. Nel 2024, in occasione della mostra Arte e Fascismo al MART di Rovereto, ho voluto mettere a confronto due teste modellate da Wildt, fuse a sette anni di distanza l'una dall'altra. Il ritratto bronzeo di Mussolini (1923) e quello di Toscanini (1930). Uguali per formato e materiale, ma profondamente diverse per spirito. Le ho volute esposte una di fronte all'altra, il potere e l'intelligenza. Mussolini è rigido, chiuso, con i fori lasciati visibili come ferite. Non devono essere coperti, sono parte della memoria. Di fronte, Toscanini osserva, in silenzio. In questo dialogo muto si misura la distanza dalla propaganda, e la capacità di rendere la forma nuda, sospesa, interrogativa. Ricordo quando, verso la fine degli anni Ottanta, vidi Vir temporis acti da un antiquario romano. Era una testa levigata, interrotta da un tratto non rifinito che rompeva la simmetria. È un'opera che va detta in due tempi, perché la sua storia coincide con una trasformazione. Il Vir temporis acti (1910-1914), oggi perduto, era infatti una scultura più ampia, una figura di soldato che si percuote con lo staffile, allegoria del dolore autoinflitto e della nobiltà del sacrificio.

Di quella composizione Wildt estrasse poi il nucleo più concentrato, il volto, e lo rese autonomo. Da qui nascono le "altre versioni". Non copie passive, ma riprese successive dello stesso tema, in cui l'immagine si stringe, si purifica, cambia accento. È lo stesso volto che ritorna, ma ogni volta con un diverso rapporto tra compiutezza e frattura della materia. In questa logica della replica variata il dolore diventa forma, insieme remota e modernissima. L'opera che segnalai fu acquistata e pubblicata l'anno seguente nella monografia di Paola Mola per I segni dell'uomo (Franco Maria Ricci, 1988), un libro importante che segnò la ripresa dell'interesse critico per Wildt. Wildt è stato rimosso non per debolezza, ma per eccesso di forza.

Il suo linguaggio era troppo alto, troppo distante dalle narrazioni dominanti. Non si è mai allineato. E oggi le sue opere ci costringono a guardare più a fondo. La sua sintesi formale non è solo scultura, ma essenza spirituale. E continua a interrogarci.

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