Fassino collezionista di poltrone: non ha ancora lasciato la Camera

RomaLa promessa l’ha fatta, solennemente, il 20 maggio scorso: «Fare il sindaco di Torino è per me un impegno per la vita. Un impegno che io ho assunto con convinzione e quindi mi dimetterò dal Parlamento», non appena insediati Consiglio e Giunta. E siccome Piero Fassino è uno stakanovista, oltre che un politico di indubbia esperienza, da sindaco ha già bruciato le tappe, e a tempo di record ha varato la giunta, ridotto gli assessori (da 14 a 11) e tagliato il budget a loro disposizione, nonchè confermato il city manager Guido Vaciago. Mancano solo le dimissioni.
Le darà? Il suo staff, da Torino, assicura che arriveranno, «probabilmente a fine mese», quando le procedure di insediamento della giunta saranno concluse. La legge non lo obbliga, come dimostra il sindaco di Brescia Adriano Paroli (Pdl), rimasto tranquillamente ad occupare il proprio scranno. Ma certo si tratta di un doppio incarico ingombrante, e tutti i suoi avversari stanno già lì a rinfacciargli la promessa: «Quando si dimette da deputato?», martellano leghisti e Pdl. In verità anche nel suo partito c’è chi scalpita: martedì la Camera ha votato le dimissioni prontamente offerte dal neo-sindaco Pd di Siena, Franco Ceccuzzi («Un atto di sensibilità politica e istituzionale che gli consentirà di dedicarsi a tempo pieno alla città», ha chiosato in aula il capogruppo Franceschini), e qualche parlamentare malizioso del centrosinistra faceva notare ai giornalisti che di quelle dell’ex segretario Ds non si aveva ancora notizia. Lo stesso Fassino, d’altronde, aveva lasciato trapelare nelle settimane scorse, in alcuni colloqui registrati dalla stampa locale, che le dimissioni erano certo possibili, ma mantenere un piede nella Capitale col seggio alla Camera (la moglie sta al Senato) gli avrebbe garantito più strumenti di intervento: «A Roma potrei tutelare meglio gli interessi di Torino» era, in sintesi, il suo ragionamento. Corroborato dall’esperienza del suo predecessore Sergio Chiamparino, che aveva spesso lamentato la mancanza di peso a Roma (anche nei confronti del suo partito), e che aveva poi compensato questo handicap assumendo la guida dell’Anci, l’associazione dei Comuni italiani.
Ed è questa la seconda partita che vuole giocare Fassino, e che renderebbe obbligatorie le dimissioni per incompatibilità formale. «Il ruolo di presidente dell’Anci vale quanto quello di un ministro, e ti rende interlocutore diretto del governo», spiega il Pdl Osvaldo Napoli, che oggi guida l’Anci come presidente facente funzione per traghettarla nel dopo-Chiamparino fino al congresso di ottobre, che dovrà sceglierne il successore. Il posto, dopo la vittoria alle amministrative, spetta al centrosinistra, e il sindaco di Torino parte in pole position. Ma dovrà fare i conti col Pd, dove la guerra dei sindaci si è già scatenata. Alla poltrona ambisce anche Michele Emiliano, primo cittadino di Bari, salito nei giorni scorsi a Roma a chiedere appoggio a Franceschini. Bersani però punta su Fassino, che ha già creato un asse con i sindaci del Nord, e anche con Matteo Renzi, per irrobustire le sue chance. E che conta sulla rivalità sudista di De Magistris, che «non permetterà mai a Bari di contare più di Napoli», per tagliare le gambe a Emiliano, come spiegano i fassiniani.
Il rischio è che tra i due litiganti Pd spunti il terzo incomodo, che già si prepara a bordocampo: Graziano Delrio, sindaco di Reggio Emilia.

Che ha tre punti a suo favore, grazie ai quali potrebbe far convergere su di sé l’appoggio del centrodestra: non è un ex Pci (e neanche un ex pm) ma un post-democristiano; è già un «uomo Anci» in quanto vicepresidente; e non ha alcuna caratura politica nazionale. A differenza di Fassino, che è un peso massimo della politica, e che dunque saprebbe far contare molto di più la carica.

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