Roma - Il fatto è che il mondo continua anche due poltrone più in là di quelle della lussuosa redazione di via Valadier, quartiere Prati. Il fatto è, se vogliamo, che il mondo ha sue esigenze quotidiane più impellenti di quelle che seminano discordia tra le primedonne del giornale di Antonio Padellaro.
Definita l’estensione della lotta, si dirà che Luca Telese, volto ormai televisivo dopo un apprendistato al giornale di Berlusconi, non molla. Circostanza che, si può giurare, avrà costretto Marco Travaglio, altra star tivù allevata a suo tempo dal Giornale, a inarcare il sopracciglio destro, dopo quello sinistro. I due continuano a essere ai ferri corti, e se fanno buon viso è per non angosciare troppo il direttore. Ma in redazione sono ben consci che, dietro a questo giochino di spazi, potere e visibilità, c’è in ballo la prevalenza, all’interno del Fatto quotidiano, dell’anima più giustizialista (i telesiani la definiscono apertamente «manettara») o di quella sinistrorsa (che ai travagliani, da sempre, viene sinceramente a noia). Tutto qui.
Come s’è arrivati a tanto? La storiella è più o meno questa: il brillante quotidiano che intercetta girotondini e protestatari vendeva pochino la domenica, perciò decide di varare un inserto satirico, denominato «Misfatti», il cui coordinamento viene offerto a una star dei vignettisti anni Settanta: Stefano Disegni. I soldi son pochi, bisogna far nozze con i fichi secchi, e Disegni declina, proponendo però un giovane che ritiene controllabile, Roberto Corradi. Lui, Disegni, si limita a inviare una striscia settimanale, l’unica a esser pagata benino (circa 350 euro). Gli altri collaboratori lo fanno con spirito «garibaldino», lo stesso Corradi lavora da casa per un tozzo di pane. Ma nell’impresa si tuffa Telese, sempre affamato di gloria. Travaglio nicchia e lascia fare.
Accade quel che non ti aspetti: l’inserto fa guadagnare copie al Fatto quotidiano domenicale, addirittura 10mila, dice l’amministratore Giorgio Poidomani. E costa come un cesto di anticaglie a Portaportese. Nel frattempo il Fatto cresce, e arriva a vantare addirittura dieci milioni di utile nel 2010. Si cambia sede, si fanno investimenti, si parla persino di tivù. È a questo punto, pare a dicembre, che Disegni si ricorda dell’inserto satirico: ora i soldi ci sono, ne parla con Travaglio. Addirittura si vocifera che abbia organizzato una campagna di commenti negativi via Web, per affossare il lavoro - non sempre all’altezza - dei giovani colleghi. A una festa privata sarebbe così risuonata la promessa: «Vedrai, con l’anno nuovo li cacciamo tutti a calci in c.». Un mese or sono, si aprono le ostilità. Telese si fa Garibaldi per intimare a Travaglio di metter giù le mani dal «giocattolino». Fu in quest’occasione che l’impassibile Travaglio, animale a sangue freddo, pare che abbia inarcato la prima volta il sopracciglio. E fatto valere il dato di fatto: «Il vicedirettore c’est moi, faccio come mi pare». Pochi giorni fa, l’avvicendamento avallato da Padellaro, che ora cerca di raccogliere cocci: «Tutto normale, nessuno si arrabbi. Ora basta, si va avanti».
Ma l’altolà alle primedonne non è bastato. Telese è tornato a raccontare sul suo blog i misfatti perpetrati ai danni suoi e dei giovani dell’inserto. Una lenzuolata per descrivere le qualità di Marco (nonché le proprie), ogni tanto il gusto del fuoco amico («Marco si commuove per i procuratori, scriverebbe paginate e paginate sui papelli e Ciancimino... ha persino teorizzato il diritto a odiare l’avversario, o Berlusconi, ma credo che ne sentirebbe una grande nostalgia... Oscar Wilde l’avrebbe fatto arrestare»). Una cornice retorica e scherzosa che serve soprattutto a rivendicare il diritto di dire a Travaglio, ogni tanto, «A Marco, ma ’ndo cazzo vai?».
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