
da Venezia
Ci sono certe estati che possono cambiarti la vita, irripetibili e di cui ti resterà sempre il sole addosso. È quello che succede al tredicenne Felice, che nonostante il nome felice finora non lo è mai stato: campioncino in erba sui campi da tennis della sua regione, il padre lo ha allenato ossessivamente in una logica di gioco che si rifà in modo bislacco alla lezione militare di Sun Tzu: non vince chi attacca, ma chi sa aspettare e non si espone mai...
Juniores, adesso il ragazzino deve vedersela con i tornei nazionali e il padre, ingegnere alla Sip, stipendio fisso, una moglie e un'altra figlia, sacrifica le tanto attese vacanze in un villaggio turistico, per pagare un maestro che accompagni "il suo campioncino" nel tour agonistico che lo attende in giro per l'Italia. Lo ha pescato fra gli annunci di lavoro di una rivista di tennis: si chiama Raul Gatti, a suo tempo riuscì ad arrivare agli ottavi degli Internazionali al Foro Italico di Roma...
Ambientato sul finire degli anni Ottanta, quando il tennis italiano vive più che altro della gloria riflessa dei mondiali vinti in Cile, ma, più in generale, da sport considerato per giovani ricchi annoiati sembra sempre più rivelarsi lo sport per giovani poveri arrabbiati, Il Maestro, di Andrea Di Stefano, ieri fuori concorso alla Mostra, è una sorta di road movie su e giù per un Paese dove c'è ancora la lira, i telefoni a gettone e pensioni e campeggi ne scandiscono il paesaggio. Appoggiato sulle robuste spalle di Pierfrancesco Favino, il film trova però nel piccolo Tiziano Menichelli il perfetto compagno di gioco per un riuscito doppio cinematografico.
Il fatto è che tanto Raul Gatti è un ex della vita, e che però cerca di non arrendersi, tennista fallito, padre irresponsabile che non ha mai voluto conoscere sua figlia, un tentato suicidio alle spalle, vari ricoveri per crisi maniaco-depressive, tanto Felice nella vita è sempre dovuto rimanere a bordo campo: non ha amici, non sa cosa sia una cotta, non gioca, non balla. È una sorta di robottino programmato dal padre, che a cenni lo guida persino dalle gradinate: "La comunicazione è tutto" gli ha insegnato, altra lezione che fa il paio con quella di Sun Tzu... Agli occhi paterni di chi a tennis non ha mai giocato e tutto quello che sa lo ha appreso leggendo libri di tecnica sportiva applicata al gioco, il figlio è Soprattutto un investimento per il futuro di tutta la famiglia e di risarcimento per il proprio passato: ingegnere frustrato, impiegato statale che arrotonda lo stipendio con lezioni private e lavoretti. Fa parte di quella fetta di italiani che nell'Italia ancora calcistica degli anni Ottanta sono però rimasti fulminati da quella transizione tennistica dove la terra rossa è divenuta ormai un brand, un nuovo divismo fatto di cachet alti, pubblicità, sponsor...
Lungo il viaggio che in Il Maestro è comunque ben raccontato, fragilità e incertezze si danno la mano, nonché la consapevolezza che nella vita, come nello sport, per riuscire, meglio, per essere sé stessi, bisogna rischiare e bisogna anche saper perdere, accettare la sconfitta e però rimettersi nuovamente in gioco. E, lezione non secondaria, bisogna anche saper lasciarsi andare, il piacere e non solo il dovere. Tanto più se, come nel caso del piccolo protagonista, il futuro da campione che libererà il padre dalle ristrettezze economiche, è più un'illusione di quest'ultimo, un'ansia di rivalsa, che non la realtà.
Dietro un Pietrangeli o un Panatta di ieri, un Sinner di oggi, sembra dirci il regista, avanza un esercito di Raul Gatti e dei suoi allievi, mentori e discepoli imperfetti, feriti, ma pieni di cuore e che è comunque bello vedere giocare.