A ventanni di distanza dal lungo seminario/spettacolo Il lago, il Teatro dellElfo di Milano torna a Cechov. E ci torna, non a caso, affrontando lultima sua opera: quel malinconico Giardino dei ciliegi (1903) che condensa in sé tutta la modernità di un universo umano inesorabilmente vittima del tempo che fugge, dei rimpianti, della nostalgia, dellincapacità di agire. Quanto viene tratteggiato nello spettacolo che Ferdinando Bruni (regista e interprete nel ruolo di Lopachin) presenta in questi giorni al Quirino è, infatti, la lenta agonia di bambini/adulti che abitano lo spazio della loro storia (una storia di perdita, di denaro dilapidato, di lutti ancora cocenti, di passioni sfiorite) come se abitassero il tempo/luogo di un gioco sospeso tra passato e futuro, tra la prigionia dei ricordi e la lieve speranza in un futuro più vivibile. Eppure si respira aria di leggerezza nella grande stanza infantile in cui il regista ambienta lintera rappresentazione. Una leggerezza - si badi bene - prodiga di disperazione, ma così aderente ai personaggi da divenire esagerata. Esagerazione che ben si adegua al ritmo diluito e pacato del lavoro: svogliato ritrovarsi di familiari, servitori e conoscenti che, mescolando classi sociali, desideri e caratteri diversi, sembra trovare la sua ragioni dessere non tanto (e non solo) nellimminente vendita allasta dellamata tenuta quanto nellindolente scorrere delle giornate, delle settimane, dei mesi.
Ed è ovviamente sulla prova interpretativa degli attori (citiamo almeno due nomi storici della compagnia milanese: Elio De Capitani/Gaev e Ida Marinelli/Ljubov) che questo languore lento e trasognato agisce in modo determinante, suggerendo loro la serena omogeneità di un registro essenzialmente equilibrato, anche se a tratti compiaciuto e forse in alcuni troppo «gesticolante».
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