Fernandez e i russi che scelsero la Francia

D ominique Fernandez parla oggi alle 18,30 al Centre culturel français (corso Magenta 39) dei «Russi che hanno scelto la Francia», come Sergei Chepik e Jacques Tati(cheff), dei quali al Ccf sono in corso una mostra di quadri e una rassegna di film. Perché parlarne a Milano e non a Mosca? Perché Fernandez - accademico di Francia - è una sintesi di culture. Vive a Parigi ed è un italianista per il quale «la cultura russa è la più grande». E con me evoca gli italiani come Curzio Malaparte (Il Volga nasce in Europa, Ballo al Cremlino) e Mario Rigoni Stern (Il sergente nelle neve) che l'hanno raccontata.
La Russia di Fernandez germogliò «in tre giorni e tre notti di lettura di Guerra e pace» quando lui era ragazzo. A casa Fernandez, del resto, la letteratura era questione di famiglia: il padre, Ramón, morto nel 1944, era uno specialista: il suo Proust è edito da Bompiani; il suo Molière da Rusconi.
La passione russa di Dominique s'è accentuata col tempo: consolidatasi a Parigi grazie all'amicizia degli esuli Demidoff, nobilissimi e squattrinati, è proseguita anche quando Mosca ha smesso d'essere imperial-sovietica e s'è ridotta a capitale di una «repubblica di Weimar» russa. Mi spiega: «Ci sono stato per la prima volta solo nel 1986, perché non volevo visitarla irreggimentato. Poi ci son tornato una trentina di volte e ho conosciuto anche la provincia». Nel dirlo, gli occhi da cinquantenne - di questo settantenne - diventano quelli di un ventenne.
Quando sposa la cultura, il garbo ha di solito due «figlie»: la semplicità nei modi e la complessità nelle percezioni. Il Fernandez milanese di oggi unisce a tutto questo un remoto imprinting locale. 1950, anno santo: il ventunenne Dominique studia all'Università Cattolica e ha un incontro fulminante nei corridoi: «Padre Gemelli che frusta col cordone dell'abito una studentessa vistosamente truccata!».
Nel 1957 Fernandez avrebbe dovuto tornare alla Cattolica, stavolta da insegnante, ma da Parigi giunse una segnalazione negativa e lui fu dirottato all'Università di Napoli. Ecco come oggi riassume il contrattempo: «Avevo firmato un manifesto contro la guerra d'Algeria e ciò fu interpretato come filocomunismo».
Il destino italiano di Fernandez si orientò così verso sud. Un suo romanzo di vent'anni dopo, Porporino (Bompiani), avrebbe condensato la sua identificazione con Napoli; Pasquale Squitieri pensò di adattare il romanzo per lo schermo, con la partecipazione di un'italiana di Parigi: Claudia Cardinale, «ma il progetto era troppo costoso», sorride rassegnato Fernandez. E non andò meglio con un altro progetto analogo, stavolta del milanese Alberto Lattuada.
Il filo dei ricordi riporta Fernandez a una festa in una bella casa di piazza Belgioioso, quella di uno dei futuri fondatori del Giornale, Guido Piovene: «C'erano Renato Guttuso, Alberto Mondadori, Carlo Levi...».

E ancora Fernandez si deve l'idea dell'unico libro italiano politicamente d'autore italiano nel dopoguerra: L'affaire Moro di Leonardo Sciascia fu scritto per l'editore parigino Grasset e solo dopo apparve da Sellerio. Nostalgia: oggi un editore parigino chiederebbe a un autore italiano solo di raccontare l'infanzia di Carla Bruni.

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