da Roma
L’unico momento di ilarità, nell’atmosfera tetra del Consiglio dei ministri di ieri, lo ha provocato Pierluigi Bersani. Quando, rivolto ai due dissidenti superstiti della sinistra radical, Ferrero e Bianchi, è sbottato: «Ragazzi, neanche nella Russia di Lenin i soviet dei lavoratori votavano sì all’81%... Non potete non prenderne atto». Risate in sala.
Per il resto, il giro di interventi alla tavola rotonda di Palazzo Chigi si è trasformato in una sorta di minaccioso accerchiamento dalle sponde moderate dell’Unione contro Rifondazione e Pdci, già abbandonati da Mussi e Pecoraro, che nella notte si erano riconvertiti al sì, rompendo il fragile giocattolo della «Cosa rossa».
«Ora basta, vi dovete fermare qui - ha avvertito duro Francesco Rutelli - non possiamo continuare ad autotormentarci: non è accettabile che la telenovela degli emendamenti si riapra in Parlamento». Segue altolà di Emma Bonino: «Non ci sono margini per cambiare ulteriormente il protocollo sul Welfare». Incalzano Mastella e Bersani: «Potete fare tutte le critiche che volete, ma niente emendamenti». È un fuoco di fila, quello che si abbatte sul povero Ferrero. Che non a caso, quando prende la parola, si paragona al grande eretico Martin Lutero: «Mi asterrò, perché non posso approvare questo testo», esordisce. Prodi lo interrompe: «Non arrivare subito alle conclusioni... ». Il valdese Ferrero allarga le braccia: «Faccio come Lutero, che prima affisse le sue 95 tesi, e poi le discusse».
Il rischio, paventato fino a ieri mattina, era che sul ddl sul welfare si abbattesse il niet di tutti e quattro i partiti della sinistra. Che non sarebbe andata così lo si è capito quando alle 10.30, dopo l’introduzione di Prodi e Damiano che hanno illustrato le «concessioni» fatte alla sinistra, ha preso la parola il verde Pecoraro. E ha annunciato il suo sì, sia pur con riserva. Prodi lo aveva chiamato al telefono la sera prima: «Che intenzioni hai? Non voglio drammatizzare il voto di domani, ma il dissenso di quattro partiti sarebbe pesante... ». Pecoraro ha spiegato: «Il problema è che il Prc e il Pdci hanno la manifestazione del 20 ottobre, e non possono non astenersi, se no che vanno a raccontare in piazza?».
Poi è toccato a Fabio Mussi: ha illustrato per dieci minuti tutte le sue riserve sul testo, poi ha detto sì. Voleva votare no, lo aveva pubblicamente minacciato. Ma la scorsa notte, in una convulsa riunione dell’esecutivo di Sinistra democratica è stato messo in minoranza dai suoi, guidati dall’ex ds Fumagalli e da Nerozzi, Cgil. Il sindacato di Epifani non gli ha perdonato di aver fatto sponda con Rifondazione, contro l’intesa. E, forte del risultato «leninista» del referendum, ha preteso l’abiura. L’unico a restare a fianco di Ferrero è stato Bianchi, ministro «tecnico» del Pdci. Che invece voleva votare sì, ma è stato richiamato all’ordine da Diliberto.
Ora Rifondazione la vede brutta: ha il (fondato) timore che Prodi metta la fiducia sul welfare alla Camera, per impedire modifiche. «A quel punto, i rapporti nella maggioranza si incrinerebbero irrimediabilmente», dice un dirigente. E il capogruppo Migliore è esplicito: il Prc può assicurare il voto compatto dei suoi al Senato? «No. Senza ulteriori modifiche lo escludo». Il mosaico impazzito della maggioranza, a Palazzo Madama, resta un’incognita ad alto rischio, per Prodi. Che ieri, finito il Consiglio, si è precipitato là per bloccare un altro fronte: l’emendamento alla Finanziaria, presentato da Cesare Salvi, che chiede l’applicazione della legge Bassanini: drastica e immediata riduzione dei ministri. Il premier ha cercato di frenare i capigruppo dell’Unione: «Figuratevi se non sono d’accordo, ma lo stesso Bassanini prevedeva l’entrata in vigore della sua legge nella legislatura successiva...». Lo ha interrotto Anna Finocchiaro: «Se rinviamo diamo l’impressione di voler salvare le nostre poltrone. Secondo te possiamo permettercelo, con questo clima?». E a sera piomba l’altolà di Confindustria alle modifiche al welfare accettate dal governo.
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