Ferroni e gli oggetti "alibi" per indagare spazio e luce

Letti, angoli di stanze, sedie: la dimensione metafisica delle cose sostituisce quella fisica

Ferroni e gli oggetti "alibi" per indagare spazio e luce

Dopo Morandi incisore, nessuno ha cercato l'essenza segreta delle cose come Gianfranco Ferroni. Ed essa non era in un luogo del cuore come Grizzana o nello studio di via Fondazza, ma negli spazi desolati della esperienza quotidiana, di giorni lunghi di meditazione. Ferroni era partito da una pittura emozionante ed emozionata tra esistenzialismo e critica sociale, ispirata a una visione marxista incrinata dopo i fatti di Ungheria del 1956. Di qui una fuga verso quel realismo esistenziale condiviso da Giuseppe Guerreschi, Bepi Romagnoni, Mino Ceretti, Giuseppe Banchieri, Giuseppe Martinelli, Floriano Bodini e Tino Vaglieri che operano intorno a metà degli anni Cinquanta, con espliciti richiami alla filosofia di Jean-Paul Sartre.

Si tratta della prima importante svolta nella ricerca di Ferroni, con opere presentate alla Biennale di Venezia. Nei primi anni Sessanta registriamo un'ulteriore svolta nella ricerca di Ferroni, che abbandona le vedute urbane e i ritratti caratterizzati dal forte gesto espressivo per concentrarsi sulla descrizione degli interni del suo studio, con tavoli da lavoro ingombri di oggetti insignificanti e immersi nel buio.

Dal 1968 al 1972, Ferroni abita a Viareggio, in una sorta di isolamento che preannuncia un altro mutamento della sua poetica e un nuovo stadio della sua pittura, sempre più concentrata all'interno dello studio, dove gli oggetti presi a modello divengono «alibi», come spiegherà più tardi in una lettera scritta a Maurizio Fagiolo dell'Arco: «alibi per indagare e valorizzare lo spazio e la luce, veri e soli protagonisti del mio interesse attuale (nell'attesa e nella speranza che questo porti significanza all'alibi)». Durante il periodo viareggino Ferroni dipinge e incide poco. Si tratta di un periodo, infatti, di attesa, passato accanto a nuovi amici, come il pittore e scrittore Sandro Luporini, legato al mondo dello spettacolo per via dei testi musicali e teatrali ideati per Giorgio Gaber.

Dopo il 1975 Ferroni presenta i suoi lavori in Italia e all'estero raccogliendo un grande interesse da parte della critica e del pubblico. La personale alla Galleria Documenta di Torino, nel febbraio 1974, è importante per la rappresentazione di stanze silenziose, che d'ora in poi saranno il motivo dominante della sua ricerca. Escono, in questo stesso arco di tempo, la pubblicazione della prima monografia dedicata a Ferroni da Duilio Morosini e la presentazione di Giovanni Testori per la mostra alla Galerie Du Dragon a Parigi, nel 1977, dove Ferroni aveva già esposto nel 1970 e nel 1971. In anni in cui l'esperienza del Realismo esistenziale milanese stava segnando il panorama della ricerca contemporanea, Ferroni agisce da capofila del movimento.

Gli anni Ottanta si aprono con una grande antologica a Napoli che ripercorre tutta l'attività di Ferroni a partire dal 1958. Questo decennio è caratterizzato anche dall'adesione di Ferroni a un movimento di nuovi artisti. Si tratta della Metacosa, denominazione con cui si identifica un gruppo di pittori (con lui Bartolini, Biagi, Luino, Luporini e Tonelli), riuniti nel suo studio milanese già dal 1979 e sostenuti dal sensibilissimo Roberto Tassi; esponendo per la prima volta a Brescia nel 1979. E oggi la Galleria Ceribelli di Bergamo commemora i quarant'anni dalla fondazione di quel gruppo, con una esposizione che chiuderà a fine maggio.

Assai raramente un artista figurativo ha saputo essere così problematico, così filosofico, così limpido e insieme enigmatico. E la nostra curiosità per le sue immagini non si consuma, ma sembra potenziarsi nella ripetitività, nell'infinita varietà, decisamente morandiana, del tema di natura morta. Gianfranco Ferroni scrive un diario che è come la vita, alternanza di varietà e ripetizioni, folgorazioni e atti inutili. La sua visione non è fotografica né iperrealistica. È invece espressione di una grande limpidezza intellettuale, di una meditazione lenta sulla possibilità di definire atmosfere ed emozioni attraverso il disegno. L'equivoco del Realismo, in Ferroni, nasconde un'intima propensione a cogliere l'essenza del reale. Ogni quadro è un progressivo avvicinamento e un noumeno imperscrutabile. Ferroni non dipinge oggetti ma teoremi.

Se osserviamo un dipinto come Sedia coperta da un lenzuolo del 1986, intuiamo l'esistenza di un protagonista misterioso, dissimulato sotto una diversa forma, con un'essenzialità quasi religiosa, che ha una affinità con il mondo interiore di Domenico Gnoli, pur senza quella concretezza, quella solidità, quell'imminenza, evidenziando, più che l'oggetto, lo spazio che lo contiene, con una minutissima esecuzione in punta di matita. Ed è proprio l'ostinato uso della matita a rivelare uno dei caratteri fondamentali della poetica di Ferroni: incisore per intima vocazione, egli, che fa della finitezza il principale obiettivo, appare più risolto nel disegno che nella pittura. Qualcosa di tagliente, di spigoloso, d'inciso, trasforma ogni foglio in una lastra, rinunciando ai facili effetti degli spessori, della materia pittorica.

Ferroni ha paura: vuole fissare l'immagine che è sempre sul punto di sfuggirgli. Così raccoglie tutto su uno sgabello o un tavolo, e l'affonda in uno spazio amplissimo, rappresentando con ostinazione il vuoto. Troppo facile dipingere ciò che c'è, ciò che si vede. Occorre cogliere ciò che sta dietro le cose, come l'ombra che si stampa sul muro, segnale di chi vede e non si vede; ed essa esiste e non esiste. Rendere solide le ombre, dare loro corpo, farle entrare come testimoni, è ciò che preme a Ferroni. E, dunque, ridurre a un velo gli oggetti, scioglierli dalla corporeità, ridurli a fantasmi nel vuoto. Ed è un vuoto densissimo, che irradia luce. Questa è la componente più misteriosa dell'opera di Ferroni: il richiamo a Vermeer come una lezione irrinunciabile, un metodo calato nella dimensione esistenziale, nel pesante disadorno, inglorioso, scarnificato e ridotto a pochi insignificanti oggetti, metafore di una solitudine invincibile. Tutto ciò che è semplice e quotidiano diviene materiale per evocazioni, si volge dalla dimensione fisica a quella metafisica; e il Realismo diventa la strada privilegiata verso la visione.

Nel 1982 Ferroni è di nuovo alla Biennale di Venezia con una sala personale, con la cura di Gian Alberto Dell'Acqua e Giorgio Mascherpa, esponente sofisticato di un ritorno alla pittura in polemica con le ricerche concettuali e anche con la sfrontata figurazione della Transavanguardia. Gli anni Ottanta sono il decennio più importante per l'essenziale e metodica ricerca grafica, con perfezionati studi sull'incisione e sulla litografia. Negli anni Novanta Ferroni è riconosciuto come un maestro; e ogni tormento grafico - ed esistenziale - sembra quietarsi e le immagini ne sono testimonianza; gli oggetti, costantemente protagonisti, galleggiano in un'aura di sospensione metafisica. In questo periodo si stabilisce a Bergamo, allestendo un nuovo studio, scenario privilegiato delle sue ultime ambientazioni.

Nel 1999 è premiato alla Quadriennale di Roma.

Gianfranco Ferroni muore a Bergamo il 12 maggio del 2001, vent'anni fa. Le sue visioni non patiscono il tempo, definiscono un eterno presente, il nostro tempo interiore, la nostra resistenza alla morte.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica