C’è un bersaglio unico apparente della manifestazione del Partito democratico a Roma. E questo bersaglio ha un nome e un cognome che hanno attaccato alle schiene dei bambini, hanno disegnato, fotomontato, accartocciato: Mariastella Gelmini. Viso da donna su corpo di uomo («testa di Cassio su corpo di Bruto»), ministro della Distruzione, aureolata Beata Ignoranza. Ma ce ne sono anche tanti altri, più nascosti, ma forse ancora più mitragliati: «Mara (Carfagna, ndr) stringi i denti», «Bossi quando ascolti l’inno il dito mettitelo nel c...». E un luogo d’odio che esiste da quattordici anni e ancora non cambia, non progredisce, non si declina: l’antiberlusconismo. I manifesti del nuovo raccontano il vecchio, sempre lo stesso Bersaglio, sotto la cornice bella e colorata del Circo Massimo di Roma.
Basta guardare i cartelloni in alto, e poi le scritte lasciate cadere sull’erba dell’antico stadio, e si trova un linguaggio serioso all’apparenza, quasi mesto di rivendicazioni polverose da scuola anni Sessanta, ma rabbioso negli anfratti della manifestazione, per niente veltroniano se si intende il veltronismo della prima fase, maschilista persino.
La manifestazione che non si vede è fatta di parole che distruggono e non costruiscono, a parte un uomo che sul suo cartellone scrive: «Più tolleranza». Un angolo di respiro, uno dei pochi: sembra un’occasione sprecata.
Lo slogan: «Un’altra Italia è possibile», preso vagamente in prestito dal movimento di Seattle, lancia una domanda senza risposte che non siano di attacco ai bersagli e al Bersaglio preferito.
La festa è grande, è vero, ma se si guarda bene in mezzo alle bandiere, nella manifestazione che non si vede, si possono osservare poi invisibili pachistani che distribuiscono l’Unità «a cinque o sei euro all’ora», ci dice uno di loro, mentre offre la nuova edizione del quotidiano comunista a una ragazza straniera.
C’è un gruppo di donne rom che si sono attaccate al petto il simbolo del Pd. Tendono la mano senza speranza, in fondo sono qui per questo, due spiccioli al corteo. Un uomo con una gamba più lunga dell’altra che si poggia al bastone e chiede la carità, in via Cavour. In cinque minuti di attesa al suo fianco solo una persona lo nota e gli lascia un euro. I poveri stanno sui cartelli ma per la strada non li vede nessuno.
La manifestazione che non si vede è fatta anche di cose buffe, come il bagno chimico che si chiama Di Pietro, ma non è uno scherzo cattivo di Veltroni: il Di Pietro in questione è «concessionario di zona a Roma». E poi ci sono le parole. Qualcuna, sì, simpatica: «Noi al circo Massimo, voi al Massimo al Circo», ma altre più nere, come queste: «Assassinata in Italia la democrazia. Il responsabile è Silvio Berlusconi». Si scopre un guazzabuglio di incoerenza, come un gruppo che sfila con il cartello: «Nonostante Marrazzo», o il militante arrampicato sul muretto che fa sapere sul suo striscione: «Sono democratico e so’ rimasto communista».
Sembra però che, nonostante il crollo delle ideologie, nonostante Veltroni, il nuovo Pd riparta dal suo arcaico clichè. L’antiberlusconismo qui a Roma prende la variante dell’antigelminismo, ma perché è la scuola il terreno della battaglia ora, la «lotta dura», come è scritto su un manifesto. In realtà cova ancora il fuoco antico: «Berlusconi vai a casa».
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