Il Festival di Roma? Sempre fuori posto

di Filippo Cavazzoni
Persa l’opportunità di tenere un gran premio di Formula uno per le strade dell’Urbe, sfumato il sogno di ospitare le Olimpiadi del 2020, Roma si sta aggrappando fortemente al suo Festival del Cinema. Ieri il cda ha approvato date, contratti e budget della kermesse. Via libera dunque al direttore artistico Marco Müller e al direttore generale Lamberto Mancini. Per il primo, il contratto, al centro qualche settimana fa di una polemica, è triennale e ammonta a 120mila euro lordi l’anno. La manifestazione si terrà, come previsto, tra il 9 e il 17 novembre; e andrà quindi a cozzare contro il Torino Film Festival che dovrebbe aprire la settimana successiva (il 23). Un esempio lampante di come il cinema italiano sia tanto incapace di fare sistema quanto privo di una strategia complessiva. Del resto, a dominare è una logica politica legata alla pura contingenza. Nelle moderne democrazie le politiche pubbliche servono anche per generare consenso, per dare visibilità e un ritorno immediato, facendo per questo propendere per grandi eventi che coinvolgono persone dalla fama già consolidata. Celebrità del calibro di George Clooney o di Leonardo Di Caprio che sfilano sul red carpet capitolino non possono che spargere vantaggi per chi può dire: sono venuti a Roma grazie all’impegno delle istituzioni locali. Per questo la politica non rinuncia ad un agonizzante Festival che dalla sua nascita non è riuscito a trovare una sua identità e una sua collocazione. Prima ha pestato i piedi alla Mostra del cinema di Venezia e ora prova a far lo stesso con Torino. L’ultimo tira-molla sulla data in cui svolgere l’evento è simbolico: sgomitando un po’ qua e un po’ la, a Roma cercano di ritagliarsi uno spazio che non si trova. In mezzo il ministro Ornaghi a provare a fare da paciere fra i due litiganti, con risultati per ora scadenti. Insomma, nonostante i tentativi di smarcamento da Venezia o Torino, quello di Roma non trova la sua ragion d’essere: ovunque lo metti, è sempre fuori posto. Il problema è anche di carattere economico. Prima di offrire panem et circenses andrebbero stabilite delle priorità. Occorre poi dimostrare con numeri e cifre come vengono spesi soldi pubblici e quali sono i ritorni in termini economici. Alcune istituzioni culturali hanno capito che bisogna invertire la rotta per giustificare - se possibile - la spesa del denaro che proviene dai contribuenti: economicità, trasparenza e rendicontazione devono essere tre principi validi anche in un settore dove si è sempre stati restii a far di conto. Una gestione virtuosa di eventi o istituzioni culturali è figlia dei giusti incentivi. Il bilancio del Festival del cinema di Roma, per l’edizione 2012, sarà di oltre 11 milioni di euro. Nel caso in cui tale cifra dovesse lievitare sarà il Comune a coprire tale aumento.

Ovviamente, se così fosse, si tratterebbe di un forte incentivo per l’organizzazione ad andare oltre la somma che le è stata messa a disposizione: perché contenere i costi? La direzione da prendere dovrebbe essere invece quella opposta: norme responsabilizzanti per una gestione dei conti oculata. Il bilancio del comune di Roma è tutt’altro che florido: può permettersi spese impreviste? A volte bisogna avere senso di responsabilità e saper dire di no.

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