È materia da cronaca nera la vicenda di Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk, opera inaugurale del teatro alla Scala. La benestante Katerina Izmajlova, intrappolata in una famiglia soffocante, si concede un amante, Sergej. Per il baldo giovinotto Katerina, la Lady, finisce per uccidere il suocero Boris Izmailov, poi il marito Zinovij, quindi la rivale Sonetka e infine se stessa, in un crescendo di avvelenamenti, soffocamenti, annegamenti.
Shostakovich musicò tutto questo a ventisette anni e fu un trionfo: in un anno e mezzo dal debutto, nel '34, l'opera totalizzò quasi duecento repliche tra Leningrado e Mosca, e accese l'interesse internazionale da New York a Filadelfia, Londra, Zurigo. Ma quel mix di immoralità, scene esplicite e musica graffiante provocò una stroncatura sulla Pravda. E pure la bacchettata del Sun di New York, che bollò il musicista come pornografo musicale. Troppo per Stalin, che dopo averla vista con Molotov dal suo palcobunker ne decretò la fine. L'opera tornò in scena 25 anni più tardi ma in versione addomesticata. Alla Scala assistiamo comunque all'originale.
Katerina si muove tra uomini detestabili. L'amante e poi lo sposo Sergej interpretato dal tenore Najmiddin Mavlyanov, classe 1979, di Samarcanda e con un passato da capomastro - è ben ritratto dalla cameriera Aksinja (Ekaterina Sannikova) che mette subito in guardia Katerina da quel ceffo. Lo descrive per ciò che è, un "torello" che affascina per "statura, faccia, bellezza", ma attenzione. Di fatto arriva dagli Izmailov in cerca di lavoro preceduto dalla fama di seduttore, con un debole per le mogli ricche. Nel libretto, Aksinja subisce quasi uno stupro: i dipendenti degli Izmailov la palpeggiano e le strappano gli abiti, una scena spesso amplificata dai registi. Alla Scala, invece, Vasily Barkhatov la trasforma in un momento tragicomico.
Nell'intercapedine tra il suocero Boris e la nuora sta il debole Zinovij, affidato al tenore Yevgeny Akimov, regolarmente deriso da un'orchestra che lo tratteggia con pernacchie musicali. Soggiogato dal padre, pretende obbedienza dalla moglie, che gli rinfaccia apertamente la sua impotenza. Shostakovich simpatizza con la sua assassina, tanto da affidarle i momenti lirici più intensi; la fa rivendicare, contro Sergej, che non sono solo gli uomini ad avere un cervello, sebbene lei stessa cedendo alle lusinghe di un Don Giovanni di quart'ordine non mostri grande brillantezza. Il compositore disegna poi un mondo dove l'adulterio è moneta corrente: le mogli annoiate trovano consolazione dai braccianti, ricorda Sergej, e lo conferma lo stesso Boris parlando della sua gioventù trascorsa tra le lenzuola di donne ammogliate. Non c'è - per dire - l'erotismo sottile di un'opera come il Don Giovanni mozartiano, ma un'esondazione di pulsioni represse.
La messa in scena sovrappone temi e tempi, con una struttura di otto metri per quindici ideata dallo scenografo Zinovij Margolin. L'impianto scenico si apre svelando ambienti diversi, anzitutto il ristorante ArtDéco del suocero Boris, alternando i ricordi del passato con il presente di Katerina e Sergej in Questura per omicidio, con lei ha ancora in abito da sposa. Il tutto è incorniciato dalla critica al capitale cantata dagli splendidi cori preparati da Alberto Malazzi: prima dai dipendenti di Boris, poi i forzati in marcia verso la Siberia.
Katerina dà del "fetido mercante" al marito, ma sarà proprio la sua ricchezza a diventare motivo di scherno tra le deportate. I poliziotti, dal canto loro, parlano solo di quattrini.
Un'opera così non poteva non attirare i fulmini della nomenklatura sovietica.
Dovrebbe invece uscirne indenne dalle forche caudine del loggione la regia di Barkhatov, noto per il suo stile audace, che qui sembra evitare provocazioni e fantasmagorie varie: niente auto incidentate o visioni comatose come nella sua Turandot al San Carlo. Vigila il direttore d'orchestra Riccardo Chailly. Dopo il Così fan tutte di queste settimane, che pareva più opera di Robert Carsen che di Mozart e Da Ponte, non possiamo che esserne lieti.