La fiamma fa lo slalom e Torino spegne i ribelli

Cristiano Gatti

nostro inviato a Torino

Basta la luce di una fiaccola per abbagliare una città. È l’effetto prodigio: la giornata della verità, che in molti temevamo bellica, diventa improvvisamente la più bella delle sessantatré vissute sul suolo italiano. Ne resta ancora una, quella di oggi, certamente la più importante, anche se da ultima si porterà inevitabilmente dietro l’immancabile vena di malinconia, perché dovrà mettere la parola fine al lungo viaggio della fiaccola tra gli ideali migliori.
Solo allegria e baldoria, invece, in questa tappa d’ingresso a Torino, meta suprema e approdo fantastico della mitologica fiamma olimpica. Lo sanno tutti, in Italia: non le è stato facile arrivarci. Ha dovuto dribblare avversari cocciuti e insidiosi. In alcuni momenti ha temuto persino di spegnersi una volta per tutte: a Trento, quando l’hanno presa dalle mani del tedoforo, o in Val di Susa, dove l’hanno coperta con una bandiera, o l’altra sera ad Avigliana, il paese di Fassino, dove i fedeli custodi hanno preferito evitare il rischio, deviando il percordo.
Ecco, il percorso: da sempre considerato sacro e intoccabile, in Italia siamo riusciti a renderlo variabile e tormentato. Nei giorni finali, la carovana olimpica s’è spostata col cuore in gola, temendo agguati e imboscate a ogni curva. Ma invece è proprio arrivando qui, a Torino, che si vede ripagare di tanta fatica e di tante mortificazioni. Il diario di viaggio può finalmente annotare emozioni indimenticabili. Non appena i tedofori si rimettono in strada, poco prima delle nove e mezzo, a Rivoli, si capisce subito che qualcosa di grande e di leggero sta succedendo: ad attenderli, ad acclamarli, ad applaudirli, c’è una folla enorme. Collegno, Grugliasco, cintura torinese: ovunque scolaresche, nonni e signore Pine, cioè la gente vera che per un giorno vuole dimenticare i discorsi pelosi sull’imperialismo e sullo sfruttamento delle multinazionali, semplicemente gustandosi un irripetibile e personalissimo «io c’ero»...
Pochi passi, ancora pochi passi, infine l’ingresso da Porta Francia, quando ormai è mezzogiorno. Torino: come un sogno che si avvera, finalmente la città si spalanca. Ecco la fiaccola tra le mani di un tedoforo reale, quell’Emanuele Filiberto che solo pochi anni fa mai avrebbe pensato di calpestare il suolo dell’antica capitale, l’avita città savoiarda. È emozionato e felice, corre di buona lena per un centiniaio di metri, poi si mette al passo perché non ha il fisico, quindi rifiata e ricorre fino al prossimo cambio: in tutto quattrocento metri tra due muraglie di gente opprimente, che si stringe, che applaude, che festeggia come in un giorno di festa paesana. «Indimenticabile», riesce solo a dire il principesco tedoforo col fiato che resta.
Ci sono problemi, ogni volta, a ripartire. Il tedoforo di turno procede come un campione del ciclismo sui grandi passi alpini, solcando da rompighiaccio la banchisa umana dei tifosi. Velocità media sul chilometro all’ora. Sfilano a una a una le cartoline della Torino più intima e più tipica: le suore del Cottolengo, gli studenti del Policlinico, il Lingotto e la Fiat...
Al seguito della fiaccola, in camper, c’è l’uomo che è andato a prenderla nella culla di Atene, e che da allora non l’ha più lasciata, custodendo anche di notte, nella sua stanza d’albergo, le lanterne del fuoco sacro. Si chiama Giorgio Camera, in carriera ha disegnato e supervisionato tanti Giri d’Italia, vanta un’enorme esperienza di folla, e proprio per questo le sue parole hanno ancora più peso. Vanno riportate qui, come la migliore epigrafe conclusiva: «Di tutto il nostro travagliato viaggio, è la giornata più emozionante. Gente ovunque, ma soprattutto gente in festa. Felice di esserci. Lo dico col cuore leggero: oggi provo la soddisfazione di aver lavorato per qualcosa di grande».
Non è la caduta sentimentale di un uomo stanco e magari troppo partecipe: parlano i fatti e parlano i numeri. Andando avanti, la muraglia addirittura s’ingrossa. A Mirafiori la fiaccola finisce nelle mani di un operaio della Fiat, uno di quegli operai che non si vergognano di partecipare ai Giochi, uno che lavora davvero e dunque sa quando è il caso di contestare e quando è il caso di rilassarsi. Tutto un altro genere rispetto ai contestatori professionali, a tempo pieno, sempre e comunque. Quelli contro per partito preso. Loro, i No Tutto, stanno aspettando in piazza Sabotino. Espongono cartelli vagamente sinistri («Nella Torino olimpica non si lavora e non si campa: produciamo conflitto»). Vogliono usare la fiaccola per accendere un enorme spinello. Ancora una volta, però, la Polizia decide di evitare pessimi spot internazionali alla nazione: cinquecento metri prima dell’obiettivo sensibile, dove gli agenti fronteggiano un centinaio di capelluti Signor No, viene improvvisata la solita deviazione di percorso. E via. Ma la cosa più singolare, quasi un fatto storico, è che stavolta la gente normale reagisce pesantemente. Pensionati e massaie, molto più delle teste di cuoio, non esitano a contrastare i gruppettari agitati: senza arrivare alle mani, ma con parole sonore come sganassoni. «Andate a lavorare», «Non se ne può più, bisognerebbe prendervi a randellate», «Levatevi dai piedi una volta per tutte, guastafeste della malora».
Il moto di popolo si diffonde sui marciapiedi, diffondendo insieme un sottile piacere: stavolta è la Torino migliore, più di Pisanu, ad accerchiare e a isolare i cosiddetti Antagonisti. Il fatto nuovo consola e riscalda, a futura memoria.

Sembra compiacersene persino la fiaccola, che freme e brilla nella sera di Torino: quando Capello la passa a Giraudo, e quando questi la cede a Livio Berruti, l’eroe di Roma 1960, per arrivare finalmente in Municipio, i più bei pensieri la cullano. Ancora una volta, magia è compiuta: prima di accendere le Olimpiadi, ha finalmente acceso una città.

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