Le fiamme divorano la California Fuggono le star, arrivano i soldati

Sfollate mezzo milione di persone. Bush proclama l'emergenza, Schwarzenegger chiede aiuto al Pentagono. A Malibu vanno a fuoco le ville di Mel Gibson, Sting, Jennifer Aniston e Barbara Streisand

Le fiamme divorano la California
 
Fuggono le star, arrivano i soldati

Trenta gradi e la terra fuma. Centodieci ettari bruciati, mille abitazioni distrutte, cinqucentomila evacuati, cinquemila e seicento pompieri in azione, undici vulcani di fuoco, due morti, ventisei feriti, la California passa dal sogno all’incubo, Bush dichiara lo stato di emergenza federale, il governatore Schwarzenegger ha chiesto l’intervento del Pentagono, dopo New Orleans, dopo l’11 settembre, l’America va all’angolo, si risveglia fragile, quasi indifesa, scossa da una paura improvvisa, imprevista.

Saltano i pali della luce, scintille filanti, corto circuito, il fuoco scioglie le colline, supera i fiumi, ingoia le case. La notte rossa di luce malvagia lascia il posto a un’alba grigiastra di fumo acre, il vento soffia a centosessanta all’ora, spinge il fuoco su Chula Vista e Bella Lago, avvolge Rancho Santa Fè, scalda la spiaggia di Solana, brucia Ventura, brucia San Bernardino, brucia Riverside, sotto le nubi di fumo e cenere sono annerite le bianche ville di Malibù, tra cui quelle di Barbara Streisand, Sting, Jennifer Aniston, Mel Gibson e Richard Gere. Fuggono gli attori e le attrici, sono sequenze e fotogrammi di nessun film ma di un ottobre profondo rosso.

Larry Himmel è un giornalista della rete Kfmb, collegata alla Cnn. Indossa un impermeabile giallo e porta occhiali da saldatore per proteggersi dal bagliore di questo inferno, tiene in mano, tremando, il microfono, parla e indica alla telecamera i tizzoni che bruciano qualche metro più in là: «È, era la mia casa, là c’era il garage, là la sala da pranzo, là il porticato. Siamo salvi, tutti, anche il cane, i gatti, anche la mia auto». Salvi e senza dimora.

Lo stadio di Qualcomm ha le luci accese sul prato che è verde, deserto. Le tribune, i sottopassaggi, gli spogliatoi sono esauriti, settemila profughi evacuati, spingono sedie a rotelle cariche di carta igienica, disinfettanti; Solana beach è un campeggio improvvisato, chiusa la riserva indiana di Las Jollas, davanti alle prigioni di Donovan, di Est Mesa, di Bailey sono parcheggiati centoquaranta autobus: «Dobbiamo proteggere la vita dei carcerati», spiega Kim Seibel portavoce della prigione di Donovan, sono oltre seimila.

Requisiti gli alberghi, la Croce Rossa e i volontari hanno organizzato centri di accoglienza, viveri, bibite, farmaci, giacigli, scenari di guerra mentre il fronte del fuoco non si arresta, le previsioni meteorologiche sgonfiano le speranze, ci sarà ancora aria secca, tirerà il vento a ottanta miglia per altre trentasei ore, l’alta pressione non molla. Il Pacifico, l’Oceano, quel mare d’acqua appena oltre la «uanouan», la strada costiera 101, il deserto dell’Arizona, dalla parte opposta, sembrano una beffa, lo schiaffo di Dio a una ricca fetta della ricca America.

Susan Key vive, con il marito Wayne presidente di una azienda di diagnostica medica, nel Rancho Santa Fè, a trenta miglia da San Diego, la sua è una villa magica, quattro stanze da letto, il giardino: «Domenica pomeriggio abbiamo avuto le prime notizie sull’incendio di Malibù che sta a due ore da noi. Non c’erano problemi, così diceva la televisione. Ma nella notte il vento è aumentato di forza, ci siamo risvegliati con le finestre annerite dal fumo, la televisione ha incominciato a trasmettere ininterrottamente gli appelli ad evacuare le case. La chiesa di Santa Teresa ha accolto i primi sfollati, poi gli alberghi si sono riempiti, tutti».

Al W di Santa Fè la camera costa trecento dollari a notte, Susan ha trovato una stanza a due letti, per lei e Wayne: «Forse qualcuno sta speculando, ci sono hotel che chiedono anche cinquecento dollari ma la Croce Rossa e il municipio hanno provveduto ad allestire in tempo le strutture di accoglienza. L’incendio del 2003 ci ha preparati all’emergenza, oggi tutto è organizzato, la gente sta reagendo con calma, le scuole sono chiuse ma non c’è il caos per le strade e anche i carcerati si sono offerti di dare una mano ai pompieri. La nostra casa è sfiorata dall’incendio che invece ha bruciato l’abitazione dei vicini. Siamo assicurati ma so che questo non basta per allontanare la paura e la preoccupazione. Il valore di tre milioni di dollari può essere cancellato da un colpo di vento».

Leon Santoro è un italiano che a diciassette anni ha abbandonato Villa Santa Maria, vicino a Chieti, per scoprire l’America e mettere su la Orfila Vineyard, un’azienda vinicola la più illustre di Escondido e della California: «Posso considerarmi fortunato, uno dei miei operai mi ha svegliato alle tre del mattino: “La vigna è in pericolo, il fuoco scende dalla montagna, vada, di corsa”, mi ha detto. Quando sono arrivato nel vigneto credevo di essere all’inferno, vedevo le fiamme che mangiavano alberi e case e si avvicinavano, poi improvvisamente il vento ha cambiato direzione, sarà stato a tre metri dalla vigna di sangiovese, il fuoco si è messo a correre altrove. Incrocio le dita, quattro anni fa il terrore ci sconvolse».

Un’altra notte illuminata dalla luce rossastra.

Il nerofumo ha sporcato i cartelli di Malibù: «Dove le montagne incontrano il mare», «La vita è troppo breve per vivere altrove». Il vento del diavolo continua a soffiare.

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