Ma la fiction su Falcone omette la scena chiave

Nella fiction su Giovanni Falcone manca una scena. È vero che in un film e anche in una fiction televisiva lunga due puntate non si può mettere tutto, e gli sceneggiatori hanno fatto un lodevole sforzo per mettere parecchia roba, forse esagerando nelle dosi del Falcone «umano» e «innammorato». Ma c'è una scena, che peraltro è raccontata in grande evidenza nel libro su Falcone di Francesco La Licata, a cui la fiction si è, sia pur «liberamente», ispirata, e senza la quale non si capisce bene perché la storia è finita come è finita: se a Palermo «quando si resta soli, si muore», senza questa scena non si sa come e perché Giovanni Falcone è rimasto solo, chi è che lo ha isolato facendone il fatale bersaglio degli assassini.
La scena, cronologicamente, andrebbe posta quando Falcone, ormai a Roma alla direzione degli Affari penali con il ministro socialista Claudio Martelli, inventa la Superprocura antimafia e la corporazione dei magistrati minaccia lo sciopero e sessanta di loro firmano un manifesto contro la Superprocura molti professionisti dell'antimafia e anche quelli che voteranno contro di lui per la carica di superprocuratore (nella fiction si parla forse troppo di Salvo Lima e poco di costoro). È il 15 ottobre del 1991 e Giovanni Falcone siede sul banco degli imputati a Palazzo dei marescialli, e viene processato dal Consiglio superiore della magistratura, dinanzi al quale è stato trascinato da un «esposto» di Leoluca Orlando Cascio, già sindaco di Palermo e fondatore della Rete ed ora deputato dell'Italia dei valori, il partito di Antonio Di Pietro (non gli si può negare la coerenza). Orlando e i professionisti dell'antimafia lo hanno accusato di «nascondere le carte nei cassetti», per non incriminare e processare gli uomini politici collusi con la mafia, e in primo luogo Salvo Lima e Giulio Andreotti («la mafia ha il volto delle istituzioni», è lo slogan di Orlando). È la premessa per l'assassinio di Lima e per il processo a Andreotti.
Il dialogo del processo è già bello e pronto, è agli atti del Csm ed è riportato nel libro di La Licata: gli sceneggiatori della fiction non avevano bisogno di inventarselo. Giovanni Falcone si difende, rintuzza le accuse di Orlando, definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Dice che «non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l'anticamera della verità, è l'anticamera del khomeinismo». Falcone denuncia «il linciaggio morale continuo» nei suoi confronti, da quando ha emesso il mandato di cattura nei confronti di Vito Ciancimino, perché quel mandato di cattura «non è piaciuto», in quanto dimostra che, nonostante la presenza del sindaco Orlando, la situazione degli appalti a Palermo continuava ad essere la stessa e Ciancimino continuava a imperare sotto banco.
E Falcone conclude: «Orlando ha ormai bisogno della temperatura sempre più alta. Sarà costretto a spararla ogni giorno più grossa. Per ottenere questo risultato lui e i suoi amici sono disposti a tutto, anche a passare sui cadaveri dei loro genitori. Mi fa paura...».

Quattro mesi dopo Giovanni Falcone verrà silurato dal Csm per la carica di superprocuratore e sette mesi dopo sarà ammazzato a Capaci con la moglie e gli uomini della scorta. Quel giorno al Csm Falcone aveva paura. E non era della mafia che aveva paura. Prima di essere ucciso dalla mafia, Falcone è stato massacrato dall'antimafia.

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