Roberto Donadoni e Giancarlo Abete hanno buone ragioni reciproche da esporre nellincontro di giovedì prossimo dedicato al negoziato sul contratto per il prossimo biennio azzurro. Il presidente della federcalcio, chiamato «sor Tentenna» a causa del suo carattere cauto (non ha ancora scelto il capo-delegazione tra Riva e Albertini, ndr), può ricordare al Ct che lha portato, in carrozza, al prossimo europeo, i vincoli legati al proprio mandato politico. Non può impegnarsi con lallenatore come solitamente fanno i club di serie A. «Io non sono né Moratti né Cobolli Gigli, devo rispondere al mio consiglio federale e alla Corte dei conti di un eventuale Ct pagato a vuoto» il ragionamento di Abete. Lobiezione non fa una piega, sul piano squisitamente formale. La federcalcio deve fare di conto e non può certo permettersi i lussi di Inter o Juve, consentiti dagli azionisti di riferimento. Dietro la forma, cè la sostanza. Abete non ha scelto Donadoni, proposto da Demetrio Albertini a Guido Rossi, il super-commissario: se lè ritrovato sulla panchina. E non ha alcuna intenzione di legarsi a un Ct come fece ad esempio Matarrese con lArrigo Sacchi dei bei tempi andati per non rispondere degli eventuali risultati negativi ottenuti dalla Nazionale. Vuole scindere la politica dal campo, insomma.
Dal suo canto, il ct azzurro, reduce dal viatico di Zurigo, può ricordare il basso profilo tenuto nella circostanza. «Non ho chiesto io il rinnovo prima delleuropeo» è la sua versione dei fatti accreditata dai resconti giornalisti. Fu Abete infatti a darsi una scadenza: «Andremo alleuropeo con uno scenario definito». Perciò è determinato a non accogliere la proposta di sottoscrivere un contratto a obiettivo, conferma alla guida della Nazionale solo se dovesse arrivare tra le prime quattro squadre a euro 2008. «Mi taglierei i ponti verso altri sbocchi» è la sua obiezione in privato. E se lItalia del prossimo europeo dovesse uscire ai quarti per un gol fantasma o per un rigore clamoroso negato? Chi conosce bene Donadoni sa che dietro questa vicenda cè solo una questione di sanissimo orgoglio professionale, non certo una banale caccia allo stipendio. Guadagna poco (750 mila euro più i premi, 850 mila euro lordi lanno nella migliore delle stagioni, ndr) e non è certo il tipo da reclamare richieste economiche fuori mercato. Piuttosto è convinto, a ragione, di aver lavorato bene in questi mesi conquistando la fiducia dei mondialisti e dei vedovi inconsolabili di Lippi oltre che dei critici scettici nei suoi confronti. Ha rinunciato a Nesta e Totti senza fare drammi, ha disegnato uno schema tutto suo, lha valorizzato, non ha lasciato a casa nessun fuoriclasse per puntiglio personale (Del Piero si è dichiarato indisponibile a giocare da attaccante esterno), è riuscito ad eliminare difetti antichi del calcio italiano, tipo snobbare le amichevoli. Trapattoni, tanto per citare un precedente di scuola, ottenne il rinnovo al ritorno da Giappone e Corea grazie allalibi di Moreno, larbitro ciccione dellEcuador passato come lo storico responsabile delleliminazione.
Le ragioni di Abete hanno un punto debole. A luglio, con un eventuale europeo deludente alle spalle, a quale porta potrebbe bussare la federcalcio per trovare uno straccio di successore? «È un rischio da correre» replicano i collaboratori del presidente. Lo stesso Donadoni si ritrovò sul soglio di Lippi per mancanza di concorrenti: Ancelotti, il più gettonato, era sotto contratto col Milan e Guido Rossi, dopo aver «pestato» il club rossonero con calciopoli non poteva certo chiedere la cortesia di liberare lallenatore.
Anche la posizione di Donadoni (fiducia completa o niente, prendere o lasciare insomma) ha una controindicazione. Non si può stare sulla panchina azzurra a dispetto dei risultati: un rinnovo preventivo non gli garantirebbe di restare in sella. Non ha sgominato tutta la critica.
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