Roma - «Ma che è questa cavolata? Sapete che c’è? Io mica la voto, me ne vado», ha annunciato ai suoi vicini di banco alla Camera. Detto fatto: Massimo D’Alema è uscito dall’aula, e durante il voto della mozione dipietrista (ma appoggiata dal Pd) contro il ministro leghista Roberto Calderoli è risultato assente.
D’Alema non è stato l’unico del Pd a tirarsi indietro, e neppure il più autorevole: tra i trentacinque deputati che sono mancati a quell’appello ci sono anche il segretario Pier Luigi Bersani, e poi Fioroni, Gentiloni, Enrico Letta, Grassi, Giovanna Melandri, Bressa. Mentre la pattuglia radicale, che del gruppo Pd fa parte, ha scelto di astenersi. Tant’è che il ministro Calderoli, dopo aver annunciato soddisfatto di aver ottenuto un margine di voti «maggiore di quello di Berlusconi nell’ultima fiducia» (293 voti a suo favore e 188 contro), ci ha tenuto a ringraziare pubblicamente «l’astensione del terzo polo e le molte assenze del Pd». Assenze per lo più volontarie, dettate dalla contrarietà a una iniziativa «poco sensata e a rimorchio di Di Pietro», come si sfogavano ieri in molti.
La mozione presentata dall’Idv chiedeva al governo il ritiro delle deleghe al ministro Calderoli per aver «mentito al Parlamento» a proposito della cancellazione della norma del codice militare che prevedeva il reato di «associazione militare di stampo politico» (al fine, secondo l’Idv, di evitare il processo a 36 «Camice verdi» leghiste che ne erano accusate), e aveva avuto il sostegno del capogruppo Pd Dario Franceschini. Ma il dissenso tra i parlamentari è cresciuto, e la riunione dell’ufficio di presidenza del gruppo Pd, due sere fa, era stata burrascosa. A capo della dissidenza il segretario d’aula Roberto Giachetti: «La mozione di Idv parte dall’assunto che il ministro abbia mentito al Parlamento - ha spiegato ai compagni di gruppo, invitandoli a ripensare la decisione di votare a favore - un’accusa gravissima, ma non corroborata da alcuna prova: anzi, gli atti che Calderoli ha portato in aula dimostrano che è andata come dice il ministro. Sarebbe insensato, oltre che un grave precedente, chiederne le dimissioni». Obiezione respinta: «Ormai abbiamo detto che la voteremo, e tanto comunque verrà bocciata: evitiamo di farne un caso», è stato il ragionamento del capogruppo.
E così Giachetti si è alzato in aula ieri, annunciando il proprio sì per disciplina di gruppo, ma spiegando le ragioni del suo dissenso: «Voglio che rimanga agli atti per quel che vale che sto facendo una cosa che penso nasca da una scelta sbagliata. Penso che questa mozione nasca da una motivazione sbagliata, quindi ogni tanto, al fine di tutelare le nostre istituzioni bisognerebbe pensare prima a quello che si fa, e se si è fatto qualche cosa di sbagliato, avere il coraggio di riconoscerlo e porvi rimedio». Silenzio di tomba, poi applausi e molte strette di mano bipartisan. E uscita in massa dell’ala Pd che vive con disagio la forzata convivenza col giustizialismo dipietrista. Calderoli ringrazia: «Giachetti ha detto la sacrosanta verità».
La mozione, come previsto, viene respinta. Ma resta il segnale, l’ennesimo, delle difficoltà del maggior partito di opposizione, in cui convivono linee e strategie diverse, e che non sa ancora bene come affrontare i prossimi mesi, dopo lo smacco della mancata sfiducia a Berlusconi. Ieri è tornato in campo anche Veltroni, preconizzando che a breve «il Pd non esisterà più», se invece di decidersi a lanciare un proprio progetto continuerà a inseguire Casini al centro o Vendola a sinistra. Una bocciatura della linea «Casini premier» sostenuta da D’Alema e sposata ultimamente anche da Bersani.
E molti nel Pd ieri benedicevano la Gelmini e la sua riforma: lo slittamento dell’approvazione in Senato ha fornito il pretesto per rinviare a gennaio una direzione che minacciava di diventare uno sfogatoio di malumori.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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