nostro inviato a Cannes
«Bon anniversaire mister President» dice Jane Fonda fasciata in un abito color crema e oro, facendo il verso a Marilyn Monroe e trasformando l'anziano Gilles Jacob in un Kennedy del cinema francese... Siamo alle ultime battute della sessantesima edizione del Festival di Cannes, i giochi sono ormai fatti e manca solo la ciliegina finale, la Palma d'oro che coronerà il miglior film. Sul palco si sono avvicendati, per la gioia del pubblico in sala, volti noti del cinema nazionale e internazionale, ma il loro ruolo è quello di dare premi, non di essere premiati e questo dà alla manifestazione un'atmosfera un po' curiosa. Jane Fonda è l'ultima di un elenco che vede Jamel Debbouze, che in Francia è un attore comico e drammatico fiero della sua cittadinanza transalpina e della sua anima algerina, Charlotte Rampling, che ci tiene a definirsi inglese di nascita ma francese d'adozione, Carol Bouquet, Alain Delon... Ciascuno recita da par suo, Debbouze facendo qualche battuta sul nuovo presidente della Repubblica Sarkozy, un po' applaudita, un po' fischiata, la Rampling ricordando che un film non ha confini, la Bouquet giocando la carta della suspense e immaginando, per il Gran Premio della Giuria di cui è la testimone, un vincitore con la stessa carica istrionica di Roberto Benigni...
Quando sul palcoscenico si presenta la giapponese Naomi Kawase, la regista di La foresta di Mogari, un vestito nero bordato di rosso, il volto pallido, l'impassibilità nipponica appena velata dall'emozione, capisce da sola che non è aria. «È duro fare un film, assomiglia alla vita» dice lei. «Ciò che ci dà la forza di andare avanti è il ricordo di quelli che non ci sono più, è il rumore del vento». Dalla platea, i suoi attori, vestiti con i costumi tradizionali, applaudono, si asciugano gli occhi e, naturalmente, scattano fotografie.
Ad Alain Delon, in uno smoking doppiopetto, ma senza cravatta, un po' appesantito ma con il ciuffo sempre più ribelle, non era andata meglio, anche se il suo essere lì per premiare la miglior attrice del concorso era più un pretesto per parlare d'altro. «Vi chiedo un applauso della durata di venticinque secondi» aveva esordito davanti a una platea perplessa. Poi, dopo una pausa: «Proprio venticinque anni fa moriva una grande interprete e una grande donna, importante per il cinema e per la mia vita. Romy Schneider». Come dirgli di no?
Quando la premiata in questione, la coreana Do-Yeon Jeon, minuta in un abito color oro, è salita a ritirarlo, Delon, che aveva appena finito di enumerare le donne della sua vita, professionale e no, senza le quali, aveva aggiunto, «sarei soltanto l'ombra di quello che sono diventato», l'ha abbracciata con il trasporto trattenuto che si ha verso l'altra metà del cielo orientale, ma lei del resto era troppo commossa e sul punto di svenire per accorgersene.
Si sarà capito, insomma, dai nomi fin qui fatti, come la sessantesima edizione del Festival di Cannes sia stata più all'insegna del nuovo un po' di nicchia, che non del glamour o delle grandi produzioni. Il riconoscimento come miglior attore è andato al russo Konstantin Lavronenko per La messa al bando, e deve essersi trattata comunque di una decisione sofferta, perché a ritirarlo non è andato il diretto interessato, evidentemente non avvertito in tempo, ma il suo regista. La sua assenza ha fatto il paio con la presenza polemica sul palco di Julian Schnabel, per la prima volta inguainato in uno smoking e non nei pigiama con cui si veste abitualmente, che dopo aver ricevuto il Premio alla regia per il suo Lo scafandro e il papillon, non ha potuto resistere alla tentazione di dedicarlo a Mathieu Amalric, l'eroe paralizzato del suo film.
Nomi poco o per nulla noti se non agli specialisti, dunque, coronati dalla Palma d'oro che Jane Fonda ha messo fra le mani del nemmeno quarantenne romeno Cristian Mungiu, regista di Quattro mesi, tre settimane e due giorni, che parla dellaborto, qui al suo terzo film.
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