Milano si ricorda del Novecento. Ed era ora. La città che ispirò a Boccioni nel 1910 il celebre dipinto, La città che sale, rimedia finalmente a una lunga disattenzione che del Novecento ha colpito, prima di tutto gli anni Trenta-Quaranta (damnatio memoriae squisitamente politica) e insieme tutti gli altri fenomeni artistici - dalle Avanguardie allArte Povera - fino ad oggi dispersi e privi di unadeguata sede espositiva, e questo proprio là dove nacque il Futurismo, che delle avanguardie fu la più travolgente.
Domani dunque i cittadini, milanesi e italiani, potranno finalmente entrare nel tempio del secolo più complesso e contradditorio di tutta la storia dellarte, non solo italiana. Ed è indubbiamente un grande merito delle più recenti amministrazioni milanesi aver resuscitato lArengario destinandolo a Museo del Novecento dopo un lungo, accurato e costoso restauro: un altro pezzo della Milano anni Trenta per decenni mortificato da tristi uffici, nonostante la sua nascita recasse, tra le altre, le firme illustri di Piero Portaluppi e Giovanni Muzio. Per coloro a cui piacciono le cifre, il sindaco Moratti ha rivelato il costo dellintera operazione: quasi 28 milioni di euro in tre anni di lavoro per recuperare uno spazio espositivo di 4.500 metri quadrati, grazie anche a generose sponsorizzazioni. Il progetto firmato dagli architetti Italo Rota e Fabio Fornasari, è incentrato sulla grandiosa scala elicolidale che dalla fermata della metropolitana arriva fino al penultimo piano. I finestroni ad arco lasciano intravvedere dallesterno alcune opere, alzando gli occhi dalla piazza del Duomo, si può scorgere il grande Neon di Lucio Fontana che dallultimo piano splende nella notte.
Marina Pugliese, curatrice delle raccolte del Novecento e oggi direttore del nuovo Museo, sottolinea che «questa è forse una delle rare volte in cui un progetto museale ha seguito il cammino di una collezione. Il concetto alla base di questa nuova sede è la compenetrazione fra il contenitore e il contenuto: i bassorilievi di Arturo Martini sulla facciata, per esempio, dialogano con la collezione di sculture dellartista». Da ogni piano delledificio - particolare di grande suggestione - si apre uno squarcio sulla città e sulla sua incredibile sedimentazione architettonica, dal trecentesco campanile di San Gottardo alle architetture di Luigi Figini.
Un contenitore prezioso, dunque, che si rivela però fin dalla prima visita piccolo, addirittura insufficiente, tanto è vero che degli oltre tremila pezzi che costituiscono la collezione civica, solo 400 (poco più del 10%) viene esposto. E la scelta offre il fianco alla critiche. Mancano alcune grandi figure artistiche, uno per tutti il pur milanesissimo Adolfo Wildt per il quale Marina Pugliese rimanda alla casa-museo Boschi Di Stefano «complementare - dice la direttrice - allArengario». Assenti pure nomi importanti come Oppi, Malerba, Dudreville, Anselmo Bucci, al quale si deve la scelta del nome dato al movimento di Margherita Sarfatti.
È pur vero che il progettista si è dovuto confrontare con le caratteristiche di un edificio già esistente e che molto spazio è stato sottratto dai tanti ascensori e dalla scale mobili, nel lodevolissimo intento di rendere il museo perfettamente accessibile anche a chi ha difficoltà motorie. È altrettanto vero che si doveva far luogo alla libreria e al ristorante (indispensabili in un museo moderno), ma perché dividere in due la scenografica Sala delle Colonne (unico ambiente originale rimasto) trasformandola in una specie di corridoio e nascondendo laffresco di Sironi? In questo lungo budello i quadri di Boccioni, appesi in fila su un pallido sfondo, perdono la loro carica dirompente. Larchitetto Rota si difende: «Ho sempre definito il mio intervento un allestimento, il che significa che nulla è definitivo e intoccabile. Anche quella che divide la Sala delle Colonne è una parete mobile e può essere spostata». Auguriamoci che lo faccia, restituendo allambiente loriginale respiro.
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