Finanziamenti Addio libertà se chiudono i nostri teatri

Caro direttore,
l’idea di Alessandro Baricco di togliere i soldi pubblici ai teatri è una tipica pensata di quelle facili. In tempo di crisi, questo il succo, è inutile sprecar quattrini con l’arte. E basta allora con i teatri e gli enti lirici, mai più sovvenzioni per Goldoni, Verdi, Pirandello e Ionesco. Piuttosto si diano soldi alla televisione e alle scuole. Per fare programmi culturali e lezioni. Magari di postura. Una brunettata, appunto. L’idea che sia improduttivo alzare il sipario ogni sera è degna dell’osteria. Che meraviglia, infatti, vedere il più grande scrittore vivente abbeverarsi al banco del luogo comune bue, chissà: avrà voluto provare l’ebbrezza del pascolo demagogico (e bestie siamo noi che ci perdiamo tempo con questa polemica). Ad ogni modo: ovvio che senza il soldino pubblico domani chiuderebbe bottega la Scala di Milano. Personalmente, faccio ad esempio, non potrei più alzare la saracinesca allo Stabile di Catania. E sono centocinquantamila presenze di pubblico pagante al Teatro Greco di Siracusa per le rappresentazioni classiche quelle che col solo biglietto al botteghino pagano e coprono il settanta per cento delle spese. Senza la restante parte su cui interviene il forziere di Stato e Regione, però, quelle centocinquantamila anime non potrebbero più sperare di godere del teatro perché, insomma, a buttarsi nel mercato, ci si attaccherebbe alla canna del gas e non ad Elettra. Ho fatto apposta l’esempio più virtuoso tra gli enti, quello dell’Inda di Siracusa (Istituto nazionale del Dramma antico), perché è il luogo più anti-glamour e pari ­ quanto a prestigio ­ a quel che il Bolscioi è per la Russia. È il posto dove ho visto con i miei occhi Mario Draghi, il Governatore della Banca d’Italia, restarsene in camicia bianca sotto il sole, in fila al botteghino, senza accampare privilegi, in attesa di prendere posto tra le pietre. Non so dove sia stato Baricco per maturare, riguardo ai teatri, una simile convinzione, magari alla Scala non possono vantare un pubblico così spartano ma siamo sicuri che la nostra Italia, così in crisi, debba rinunciare a quella grande officina di Tespi dove trova alloggio il genio? E dove allora forgiare il demone della messa in scena, solo in tivù, dove l’architettato cachet sanremese previsto per Roberto Benigni ­ facciamo ad esempio ­ quello della comparsata più recupero diritti dall’archivio Rai ­ facciamo sempre ad esempio ­ solo tra i lustrini catodici può campare tra furbizia e furor d’arte? A proposito: poi si rischia a far passar per Dante quello che Benigni spaccia come Dante. E chissà se Baricco avrà visto il sempre affollato Don Chisciotte di Franco Branciaroli, quello dove a giostrare sono le voci di Carmelo Bene e Vittorio Gassman, perfettamente imitate dal grande Branciaroli. Ad un certo punto i due spettri gareggiano su chi tra i due legge meglio il Quinto canto, specie che adesso Dante lo masticano perfino le veline e «i comici che non sanno far ridere». Su questa battuta, a forza di applausi, cade il teatro, segno che il pubblico di palato vero non ne può più di Benigni. Un terzo spettro in scena, quello del Poeta in persona, se ne esce con una sferzante sentenza: «Recitar i miei versi sono sempre cazzi, l’unico che vi riesce è l’Albertazzi», ma il lapsus rivelatore di conformismo è che nessun giornale, neppure un accurato servizio del telegiornale Rai, ha dato notizia di questo sbertucciare su Benigni. Questo, naturalmente, è un altro discorso, non vogliamo sviare dal ragionamento, solo che se non c’è il teatro, caro direttore, se ne va via un bel pezzo di libertà. E ha detto una cosa sacrosanta ieri al tuo giornale il grandissimo Branciaroli: «Se i finanziamenti li togliessimo alla stampa?». Si chiuderebbe. «Farebbe bene al Paese?». No, ma torniamo a bomba. E sono Brunettate, appunto, quelle di Baricco. E non è neanche vero che i teatri siano vuoti. Nei giorni di Sanremo, a Roma, il Teatro Stabile di Catania faceva sempre il pienone e per giunta con un’opera sofisticata assai: ’U Ciclopu di Euripide nella traduzione di Pirandello e con un vero fuoriclasse in scena: Vincenzo Pirrotta. Non so a quali teatri faccia riferimento Baricco ma a Roma, per Pirrotta, mentre furoreggiava Sanremo, hanno dovuto aggiungere le sedie. E così per Pipino il Breve, la commedia musicale di Tony Cucchiara. Un’altra produzione fatta con i soldi pubblici: «Tutto esaurito». Ogni sera. A Padova, ancora l’altra sera, al botteghino hanno dovuto organizzare la lista d’attesa per sopraggiunto rispettabile pubblico. Giusto in tema di Padova, caro direttore, te lo formulo meglio l’esempio definitivo: così come la sanità pubblica, quando funziona (e in Veneto funziona) è preferibile alla sanità privata, così è il teatro.

Quello pubblico, quando funziona, è l’eccellenza. Altrimenti, col mercato, ci si dovrà accontentare del Dante fatto da Benigni. Grande audience, per carità, ma prima o poi qualcuno gli farà sentire come lo fa l’Albertazzi. E allora saranno solo...

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