«Fini, nel riconoscere che cera bisogno di un salutare e rigenerante bagno di umiltà si riferiva forse più al Cavaliere che a se stesso. Una velenosa stoccata che, nel chiaro intento di colpire apertamente Berlusconi, si è rivelata come una cinica sollecitazione al premier affinché si facesse finalmente da parte e lasciasse ad altri il posto del comando...».
Non è un commento al discorso programmatico del presidente della Camera e leader del Fli a Mirabello. E nemmeno unanalisi post assemblea del Pdl di aprile, quella in cui il presidente della Camera, puntando lindice accusatore, ha attaccato a testa bassa il Cavaliere. Comunque uno scritto recente, direte voi, viste le considerazioni contenute, il piano di Fini per scalzare Berlusconi e diventare leader del centrodestra. E sbagliate, clamorosamente. Perché il testo da cui è tratto il brano citato ha ormai oltre cinque anni. È stato pubblicato nellanno di grazia 2005 ed è tratto da un saggio interessante, «Lo Spergiuro. Da Fiuggi a Gerusalemme - dalla Fiamma alla Farnesina (e dal governo allopposizione?)», edizioni LAquilone. A scriverlo non un veggente, non un mago con la palla di vetro, ma Emilio DAndrea, giornalista, ex militante del Msi prima e di An poi, ex consigliere regionale della Basilicata, uscito dal partito in polemica con la gestione di An. Anzi, pardon, non uscito ma cacciato via dallallora leader di Alleanza nazionale, che lo ha espulso perché reo di avere assunto posizioni critiche rispetto alla dirigenza e, udite udite, di avere fondato proprio in dissenso con Fini un gruppo consiliare autonomo.
Cinque anni portati benissimo, quelli del volumetto. Che traccia un ritratto impietoso del giovane Fini-Pinocchio - così lo dipinge lautore - diventato leader grazie ad Almirante prima e a Berlusconi poi. Un leader ingrato, che, secondo lautore, ha calpestato i suoi padri con labiura del fascismo e con gli attacchi al Cavaliere che lo aveva sdoganato. DAndrea parte da lontano, da «la carriera del raccomandato», così si intitola il capitolo riguardante i primi passi del giovane Gianfranco, baciato dalla fortuna e da Almirante-Geppetto che incoronandolo delfino lo ha sempre aiutato e protetto.
È lanalisi di un militante deluso, la sua, di un fedelissimo che ha visto disperdersi, a causa della leadership di un «padre padrone» che è come «lottone, che luccica ma non è oro», il patrimonio della destra. Di un militante che si preoccupa, anche, per i primi germi di una liaison con la sinistra. Guardate cosa scrive, a proposito del 1998, ben 12 anni fa: «In quellanno Fini si avventurò oltre ogni limite, contro lorientamento ufficiale di Forza Italia, in favore del sì al referendum sullabolizione della quota proporzionale, sostenuto anche dai Ds, da Segni e da Di Pietro...». E poi, gli «applausi» della sinistra, annotati quasi con orrore dallautore: «da DAlema a Gavino Angius e, persino Fausto Bertinotti!», scrive DAndrea. Profetico.
Sono tante le notazioni che potrebbero essere calate in pieno nella cronaca di oggi, non escluse quelle sulla «gestione patrimoniale del partito» affidata a una «stretta oligarchia di vertice», laffaire Montecarlo insegna. Ma è il capitolo che DAndrea dedica alla propria cacciata quello che, letto adesso, si rivela a dir poco illuminante. Tutto nasce da una contesa locale, la nomina di un capogruppo dallalto che DAndrea non digerisce. Protesta, scrive una lettera a Fini. E nelle more che la sua voce, pur in dissenso, sia ascoltata, costituisce al consiglio regionale della Basilicata un gruppo autonomo. Ed ecco cosa accadde: «Sul Secolo dItalia - scrive DAndrea - quotidiano dinformazione del partito e non già suo deliberante organo di disciplina, un breve trafiletto annunciava lavvenuta mia espulsione da partito per avere aderito ad un gruppo consiliare diverso da An.
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