Fini fa il furbo col piede in due scarpe

Lancia il nuovo gruppo ma non un partito, recrimina di esser stato sfiduciato ma non molla la presidenza della Camera convoca i giornalisti per accusare il Cav di illiberalità ma evita le domande. E un sondaggio svela: alle urne vale l’1%

Fini fa il furbo col piede in due scarpe

Roma - Fini l’ambiguo contrattacca ma soltanto a metà. Accusa, rilancia, strappa ma non rompe. Resta. Lancia il nuovo gruppo «Futuro e libertà per l’Italia» ma non un altro partito. Lamenta di esser stato espulso ma non fa le valigie. Recrimina di esser stato sfiduciato ma non lascia la poltrona di presidente della Camera. Si richiama ai valori del Pdl ma ritiene il suo leader illiberale e despota. Loda il governo per la lotta al crimine in nome della legalità ma chiede le dimissioni di alcuni suoi componenti proprio in nome della legalità stessa. Spinge sul tasto dell’etica pubblica e del rispetto delle regole ma indice una conferenza stampa dove la stampa non può fare domande, sia mai che a qualcuno salti in mente di porre quesiti scomodi, magari sugli immobili di Montecarlo. Ritiene il garantismo principio sacrosanto del Popolo della libertà ma poi fa partorire il suo nuovo gruppo con la benedizione del braccio destro del manettaro Di Pietro, Silvana Mura, presente ieri in sala.

Nulla che non ci si aspettasse, in fondo. La vera sorpresa della giornata non è quella che Fini fa, ma quella che riceve: secondo un sondaggio di Euromedia Research fatto a quattro ore dalla conferenza stampa, se si votasse oggi, un soggetto politico che facesse riferimento al presidente della Camera varrebbe dall’uno al tre per cento se corresse da solo, dall’uno al due se si alleasse con il centrosinistra. Non male, come inizio.

Si presenta alle 15 in punto all’hotel Minerva, Gianfranco Fini: alla sua destra i suoi supporters più convinti accendono perfino il videotelefonino per registrare la scena. «Ieri sera in due ore, senza la possibilità di esprimere le mie ragioni, sono stato di fatto espulso dal partito che ho contribuito a fondare...», esordisce facendo riferimento al Pdl, la cui genesi era stata salutata come «comica finale». Poi snocciola i j’accuse berlusconiani: lo stillicidio di distinguo e la contrarietà nei confronti del governo, le critiche alle decisioni del partito di cui fa parte, l’attacco sistematico al ruolo e alla figura del premier, i suoi orientamenti confliggenti al programma politico per il quale è stato eletto. Per Fini le lamentele del premier, impantanato da mesi per l’ostruzionismo dei finiani, è «concezione non propriamente liberale della democrazia», a prescindere dal volere degli elettori, esausti dalla continua rissosità della maggioranza di governo.

Poi si difende dalla critica di non essere più super partes e alla frase che «è venuta meno la fiducia del Pdl nel ruolo di garanzia del presidente della Camera indicato dalla maggioranza che ha vinto le elezioni» ribatte che «ovviamente non darò le dimissioni perché è a tutti noto che il presidente deve garantire il Parlamento e non la maggioranza che lo ha eletto». Chi mi ha messo qui non mi vuole più? Pazienza: la poltrona non la mollo. Quindi l’affondo al nemico considerato sideralmente lontano: «Sostenere il contrario dimostra una logica aziendale, modello amministratore delegato-consiglio d’amministrazione, che di certo non ha nulla a che vedere con le nostre istituzioni». Due mondi diversi, opposti: da una parte Berlusconi, l’antipolitico, l’uomo del fare e dell’agire; dall’altra Fini, l’animale politicante, il subacqueo abituato e abile a sguazzare nelle acque torbide del Palazzo. Chiarissima la limacciosità del suo agire prossimo futuro. Come fatto fino a ora, starà dentro il partito pur considerandolo un frutteto di mele marce. Appoggerà il governo, dove pure siedono uomini a lui vicini, pur considerandone alcuni membri (in primis il capo Berlusconi) poco degni.

Sventola poi la bandiera della «legalità», Fini, tanto da beccarsi, a fine giornata, la replica del ministro dell’Interno Roberto Maroni: «Mentre altri fanno convegni,m noi facciamo i fatti: siamo il governo della legalità». È costretto a riconoscere, Fini, che la «lotta al crimine è un merito di questo governo», ma individua la falla nell’«etica pubblica, nel senso dello Stato e nel rispetto delle regole». Cerca di richiamarsi all’elettorato del Pdl, «quelli onesti, grati alla magistratura e alle forze dell’ordine che non capiscono perché nel nostro partito il garantismo, principio sacrosanto, significhi troppo spesso pretesa di impunità».

Un attacco in piena regola ai vertici del Pdl ma anche un’ammissione della propria strategia: aspettare la spallata a Berlusconi da parte delle frange più radicalizzate della magistratura. Un garantismo un po’ peloso, quello finiano: sacrosanto e giusto quando le procure accendevano il faro sui suoi uomini, oscena richiesta di impunità quando il fanale investe i berlusconiani. Insomma, Fini è sempre più all’opposizione restando nella maggioranza. Alla faccia della chiarezza. Lo dice chiaro e tondo ringraziando i suoi, il numero dei quali, in conferenza stampa, non viene svelato.

«I miei uomini sosterranno lealmente il governo ogniqualvolta agirà davvero nel solco del programma elettorale e che non esiteranno a contrastare scelte dell’esecutivo ritenute ingiuste o lesive dell’interesse generale». In pratica si andrà avanti così, con la tattica del Vietnam. Prima i finiani facevano guerriglia fianco a fianco ai colleghi di partito, ora la faranno dagli scranni di un gruppo parlamentare differente.

Attenzione: non partito differente: «Faremo riferimento ai valori autenticamente liberali e riformisti del Popolo della libertà». Quello stesso Pdl nato dal Predellino su cui Fini è salito pur ritenendolo «comico» da cui ora vuole scendere. Ma solo per metà.

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