Roma - Governo battuto in Aula. Il tempo di un respiro e Gianfranco Fini sentenzia: «Evidenti implicazioni politiche». Un’altra manciata di secondi e arrivano, compiaciute e premature, la constatazioni di decesso, con le relative richieste di dimissioni post mortem. Un paio di giri in volo sopra il cadavere presunto e poi via anche con la divisione delle spoglie: «Governo tecnico!»; «No elezioni»; «Ok, ma non subito, prima breve esecutivo di transizione». Il tutto mentre fuori dal Palazzo il Popolo viola, colore questa volta perfettamente intonato al clima, inscenava una manifestazione-veglia, organizzata in tempi che nemmeno il migliore dei flash mob. Nessuno, alla Camera, si è dato una mezz’ora per scovare, elenco alla mano, assenti giustificati e no, per una ricerchina Google sui precedenti. La calata è iniziata a seggi del governo ancora caldi. Scontate le campane a morto delle opposizioni. Meno scontati altri epitaffi, ad esempio quello del senatore Pdl Giuseppe Pisanu e quello dello stesso Fini, che riveste un ruolo istituzionale, ma è anche leader di Fli, una delle forze di opposizione più agguerrite.
Il presidente della Camera ha salvato la forma, ma non gli è riuscito nascondere la soddisfazione per la figuraccia della sua ex coalizione di governo: «Il presidente della commissione Giorgetti - ha riferito dallo scranno più alto della Camera - ha chiesto di sospendere la seduta. Mi sembra giusto, date anche le evidenti implicazioni di carattere politico dell’accaduto». Come dire, accetto di rinviare, ma solo perché siete messi male cari ex colleghi. Non ha detto: per pietà staccate la spina, ma solo perché lo ha fatto il vicepresidente di Futuro e libertà Italo Bocchino: «È la fine di Berlusconi». Fini si è tenuto per sé solo un paio di considerazioni tecnico-apocalittiche: è un «fatto senza precedenti» la bocciatura del primo articolo sul rendiconto e «non è chiaro se potrà sopravvivere». Il rendiconto, si intende. Velocissimo e in picchiata Giuseppe Pisanu, che peraltro è un senatore, del Pdl, e quindi non era presente, ma è arrivato prima di tanti altri: «È l’ennesima conferma che la maggioranza non tiene». Frase pronunciata quando nemmeno il governo aveva ben chiara la situazione e i boatos di palazzo andavano dal «default assicurato», alla «manovra tutta da rifare» (ma non era il rendiconto del 2010?).
Euforia tra le opposizioni, che erano presenti in massa, a partire dai papaveri più alti. Apre le danze Dario Franceschini vestito da diretta tv e l’aria di chi festeggia: «Berlusconi prenda atto che la maggioranza non esiste più. Non c’è più in quest’Aula né nel Paese. Le dimissioni sono doverose». Di fianco al capogruppo, il segretario Pd Pier Luigi Bersani applaude, freme e poi si fionda in Transatlantico e, finalmente, dice la sua. «Il governo non c’è più, Berlusconi vada al Quirinale». Seguono D’Alema («fatto senza precedenti che impone dimissioni»), battuto sul tempo da Veltroni che la sua richiesta l’ha formulata a meno di 20 minuti da un voto tecnico e difficile da pesare. Alla faccia del Pd Pippo Civati, che non li vuole in Parlamento nella prossima legislatura. I toni da crepuscolo del Pd comunque ieri stonavano con le espressioni soddisfatte e le gomitate. E la ragione è semplice: loro già sapevano che il governo è caduto in una trappola tesa da Roberto Giachetti. Deputato Pd ed ex radicale, quindi un esperto di Parlamento che sa come sfruttare - con cattiveria, ma dentro i regolamenti - le debolezze degli avversari. Quello già ribattezzato il «giochetto di Giachetti» è semplice. Ha nascosto tre deputati nei corridoi di Montecitorio. Poi li ha fatti rientrare in Aula in tempo per farli votare contro l’articolo uno del rendiconto e mandare la maggioranza sotto di un soffio. Loro, i democratici, lo sapevano, Pisanu e Fini no. A giochetto rivelato, Antonio Di Pietro non ha rinunciato al suo colpo, non contro il governo: «Penso che stia al Capo dello Stato valutare autonomamente» se staccare la spina.
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