Finiamola con la telenovela dell’amore tra Olindo e Rosa

Non è vero che a Natale si diventa tutti un po’ più buoni. A me, per esempio, non succede. Quello che era già un sospetto piuttosto fondato, è diventato una certezza ieri mattina durante la consueta lettura dei giornali. «Olindo e Rosa lontani ma con un solo sogno: passare Natale insieme», strillava un titolo d’apertura. E sotto una cinquantina di righe struggenti, nelle quali si riferiva che la loro speranza («quella che li sostiene in questi giorni, dopo che l’uomo ha preso la strada del carcere di Piacenza e la donna è entrata in una cella a Vercelli») si potrebbe persino realizzare.
Ecco, lo confesso: non sono riuscito a commuovermi al pensiero della coppietta riunita per le festività più sacre della Cristianità. Così come non avevo trepidato durante la telenovela mediatica della ricerca di una prigione che potesse ospitare tutti e due come ritenuto assolutamente necessario dagli psicologi pena il loro suicidio (si trova sempre uno psicologo pronto a sostenere qualsiasi tesi: ma con questo ricatto, nessuno sconterebbe più nessuna pena); non mi ero intenerito di fronte ai loro appelli amorosi: «La condanna non ci importa, purché ci diate una cella matrimoniale» (e come no); non avevo battuto ciglio quando era stato deciso di non ascoltare né gli psicologi né il provveditore per le carceri lombarde e di spedire marito e moglie nelle patrie galere di due città diverse; non mi ero turbato apprendendo che Rosa, alla notizia, «era sbiancata in volto e poi svenuta» e la notte successiva «non era riuscita a dormire», mentre Olindo si era detto «disperato».
Per dire quanto ho il cuore di pietra, avevo provato anche sincero fastidio durante il processo, osservando le tenerezze dei due piccioncini in gabbia. E mi sono trovato persino in disaccordo con il loro avvocato difensore, quando ha sobriamente commentato la notizia che i suoi assistiti non avrebbero avuto il privilegio di svernare nella stessa casa circondariale: «Provvedimento assurdo e disumano». Perché, vedete come sono refrattario ai buoni sentimenti, a me di tutta la storia di Erba l’unica cosa disumana continua a sembrare il massacro di tre povere donne e di un bambino di due anni del quale la coppia, fino a prova contraria, si è macchiata due anni fa e per la quale è stata condannata all’ergastolo dopo un regolare processo.
Si dirà: ma loro, adesso si proclamano innocenti. Vero: dopo aver confessato l’efferato crimine in modo dettagliatissimo, movente compreso, ed essere stati riconosciuti dall’unico sopravvissuto alla strage, hanno ritrattato facendosi scudo della mozione degli affetti: «Abbiamo ammesso responsabilità non nostre perché ci hanno assicurato che così avremmo potuto rivederci: non riusciamo a stare l’uno lontana dall’altro». Credibile? Per quanto si è letto della vicenda, non molto. Ma non si può certo escludere che in Italia si possano fare errori giudiziari anche clamorosi. Figuriamoci.
Tuttavia non è questo il punto. Se fossero innocenti, ci si dovrebbe battere per farli uscire dal carcere, non per trasformare una cella nella loro alcova. Se invece sono colpevoli, come ha stabilito per il momento la giustizia, non si vede perché debbano godere di un trattamento particolare. Si vedranno, come tutti i carcerati, nei modi e nei tempi previsti dal regolamento.

Troppo poco per la loro passione? Beh, se vi spunta una lacrima, pensate al piccolo Youssef, che di passioni non potrà mai averne: forse scoprirete che anche a Natale ci si può sentire un po’ meno buoni. E magari è giusto così.

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