Treviso - I sindaci del Veneto sono 581. Se quasi la metà (270, il 46 per cento) si sentono strangolati dalla legge finanziaria, si coalizzano, firmano un ricorso e lo presentano al presidente della Repubblica, come la vogliamo chiamare? Sommossa? Ammutinamento? Guerra? Diciamo rivolta, che ricorda tanto quella manzoniana del pane, visto che sempre di tasse si tratta. Rivolta fiscale. Perché se Roma taglia, in periferia devono aumentare.
«Negli ultimi dieci anni le imposte locali sono cresciute del 111 per cento», garantisce il segretario degli artigiani di Mestre, Giuseppe Bortolussi, uno che i conti li conosce come pochi e sa bene che il Nordest è sull’orlo del collasso.
Il ricorso straordinario al capo dello Stato è l’estrema arma del diritto amministrativo dopo che il Tar del Lazio ha ribaltato una sentenza del Tar del Veneto. Proprio su queste zone si accaniscono i tagli dei trasferimenti statali. Il colpo di mannaia più netto colpirà Padova, cuore del Nordest. Meno 13 per cento, contro una riduzione media nazionale del 4 (nel 2007 la sforbiciata era stata del 3,7 rispetto al 2006).
Il danno si unisce alla beffa: Padova è il comune italiano che riceve l’importo più basso per abitante, appena 128 euro. Secondo la Cgia di Mestre, che ha elaborato i dati del ministero dell’Interno, bisogna aspettarsi un’ulteriore impennata delle imposte locali.
Tasse, tasse, tasse. E assieme alle stangate, le campagne di Visco secondo cui Nordest uguale evasione. Becco e bastonato. Qui la rivolta da tempo non è più soltanto un proclama. Il focolaio è Treviso. Non sono i più litigiosi, ma i più presi di mira. A parte Venezia con i suoi mille specialissimi problemi, Treviso è la città veneta dove è più alta la pressione tributaria locale, nonostante un’Ici inferiore al resto del Paese. Qui il 58,2 per cento della popolazione paga un’imposta netta contro il 57,2 di Padova, il 55,2 dei comuni del Centro Italia e il 37,6 del Sud: la media nazionale è del 51,4. Nel 2004 ogni abitante della Marca ha versato 2.414 euro di Irpef contro una media nazionale di 2.142.
La protesta è scoppiata nell’autunno 2006: Prodi era a Palazzo Chigi da meno di sei mesi e già si capiva come sarebbero andate le cose. Mario Pozza, presidente provinciale di Confartigianato, radunò in piazza dei Signori, sotto le mura merlate del Palazzo dei Trecento, migliaia di piccoli imprenditori inferociti, compresi l’allora numero uno di Unindustria, Andrea Tomat, e Nicola Tognana, ex vicepresidente di Confindustria.
I cortei si moltiplicarono in tutto il Nord Italia. Altro round lo scorso 9 luglio, quando fu ignorata la scadenza dei versamenti prevista dagli studi di settore. «E non verseremo neppure la mora per il ritardo», tuonò Pozza. Idem tra gli aderenti alla Cna, l’altra organizzazione artigiana, a dimostrazione che questa non è una battaglia di schieramenti.
Aziende che chiudono, arrancano, rinunciano a investire, evitano di comprare macchinari per pagare le tasse, ritardano il pagamento delle fatture. Quartieri artigianali o industriali pieni di capannoni nuovi ma deserti, tappezzati di cartelli «Vendesi» oppure «Affittasi»: investimenti fatti quando il mattone andava forte e inutilizzati con la crisi dei mutui. Una decina di giorni fa un commerciante ha tentato il suicidio a Cappella Maggiore, non lontano da Vittorio Veneto, perché non riusciva più a mandare avanti il negozio: il motivo era scritto su un bigliettino lasciato a casa all’ora di pranzo. I carabinieri, avvertiti dalla moglie in lacrime, l’hanno trovato chiuso in auto, privo di sensi, accanto a una bombola di gas aperta.
Mille storie di artigiani vessati. Giulia Brunetta, titolare di un’azienda di imballaggi a Fontanelle, racconta che a fine anno ha indicato una data erronea per la valuta dell’anticipo Iva: 28 dicembre anziché 27. «Ormai si fa tutto al computer da casa, succede di sbagliare». Dopo due mesi è arrivata una penale del 6 per cento: 428 euro su oltre 7000 di versamento. «Le sanzioni ci vogliono, ma devono essere ragionevoli, proporzionate al ritardo e al comportamento dell’azienda. Dal 1979 io ho sempre pagato tutto in regola, mai fatto un condono, e per me 428 euro sono quattro giorni di lavoro. Ogni tanto ci prende la tentazione di chiudere, ma ci dispiace lasciare a casa i nostri dipendenti. Soffrono anche loro per i salari bassi. Siamo tutti demotivati, non lavoriamo sereni. Tutti questi infortuni sul lavoro, cosa crede? È che si lavora proprio male».
Lunedì mattina: nella carrozzeria di Armando Sartori a Oderzo c’è una sola vettura. «Tre anni fa dovevo rifiutare le auto, adesso dovrei lasciare a casa i ragazzi - sospira -. Qui eravamo i cinesi d’Italia, ora con la crisi le grandi aziende non danno più lavoro ai terzisti. E lo stallo delle piccole imprese significa l’inizio della fine. Mi fa ridere Veltroni quando dice che siamo il motore dell’Italia. Ma se togli l’olio, il motore continua ad andare finché grippa, e a quel punto non puoi ripararlo, devi buttarlo via. Nel resto d’Italia pensano che noi chiediamo soldi o un trattamento di riguardo. No, vogliamo soltanto poter fare il nostro lavoro. Teniamo duro, lavoriamo dieci ore invece che otto, a fine anno per sistemare il bilancio andiamo a prendere i due soldi messi via anni fa, così risulta pure che siamo coerenti con gli studi di settore. Noi i risparmi non li abbiamo portati in Liechtenstein, ci abbiamo costruito le casette odiate da Toscani, che ha fatto i soldi a Treviso e ora ci sputa sopra. Abbiamo allargato le nostre aziende e installato gli antifurti contro gli slavi. E abbiamo pagato tutto di tasca nostra, agevolazioni zero, con il Friuli a 500 metri che ci fa concorrenza sleale. Il Veneto è solo una vacca da mungere: avessero almeno coltivato il prato, invece l’hanno inaridito».
Aldo Rivaben ha un’azienda metalmeccanica, la Bfr, che progetta e produce macchine utensili. «Tasse e burocrazia ci paralizzano. Ora dobbiamo anche aspettare il nulla osta del ministero se un dipendente viene licenziato o decide di cambiare lavoro. Noi impieghiamo manodopera altamente specializzata, difficile da trovare perché le scuole tecniche sono poche, e dobbiamo tenercela stretta con una contrattazione singola, non aziendale. Dobbiamo tenere aggiornate le macchine alle ultime tecnologie. E abbiamo di fronte la concorrenza di Paesi che sostengono le loro aziende. Purtroppo in Italia si lavora solo alla giornata».
«Fare l’imprenditore è sempre più difficile», scuote la testa Pierluigi Adustini, titolare di una ditta di alimentatori elettrici a Caerano San Marco, la Kert, e presidente della Cna di Montebelluna -. L'euro sempre più forte, i margini risicati, le banche in sofferenza, la globalizzazione, i costi crescenti delle materie prime: tutti fenomeni sui quali non si può intervenire. Si potrebbe alleggerire il carico fiscale, invece sono legnate. Negli anni abbiamo dovuto concentrarci a produrre più velocemente per non perdere quote di mercato. Si investiva per comprare nuovi macchinari, mentre siamo rimasti indietro nell’innovazione».
L’alternativa era secca: produrre in tempi più brevi oppure destinare le risorse alla ricerca, che ha costi certi e una resa incerta. «Abbiamo chiesto di defiscalizzare gli investimenti su ricerca e sviluppo, ma lo stato non ci è mai venuto incontro - protesta Adustini -. A Treviso ormai riusciamo a reggere la concorrenza di Cina e India soltanto in produzioni speciali, dove la nostra tecnologia è ancora vincente, e dobbiamo essere aiutati a migliorare il know-how. Invece per sei mesi, e forse di più, lavoriamo per pagare le tasse. Noi imprenditori rischiamo sempre, ed è doveroso che il sistema fiscale riconosca comunque una remunerazione a questo rischio. Ma il taglio di uno o due punti non ci cambia la vita, aiuta ma non risolve. Bisogna incidere anche sulla fiscalità locale, sulle bollette dell’energia, sugli obblighi burocratici e le mille spese inutili».
«Tutto è contro di noi - insiste Pozza -. Il forfettone è diventato un forfettino. I consorzi di garanzia al credito sono in crisi. L’export cala, l’edilizia è ferma perché nessuno compra più. Gli ultimi bandi europei sull’innovazione preparati da Bersani sono fatti su misura per le coop: la piccola impresa singola non può accedere. Così il nerbo dell’economia italiana è in ginocchio.
Per fortuna Prodi è andato a casa, altrimenti ci avrebbe massacrato ancora. Ascoltano soltanto la voce della grande impresa, e siccome nel Nordest di grandi non ce ne sono, prendiamo solo bastonate. Comunque sconti non ne facciamo a nessuno, neanche al prossimo governo, perché per noi è questione di sopravvivenza.
Veltroni dice che con lui ci vorrà un giorno per aprire un’impresa? Preferirei che creasse le condizioni perché non sia costretta a chiudere il giorno dopo». «E stia attento anche il signor Berlusconi - avverte Sartori - perché il Veneto è un altro Kosovo. Quando esploderà, non ci dicano che non glielo avevamo detto».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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