F.L. Wright, l’architetto donnaiolo e antimoderno

Si può parlare in molti modi di un grande architetto. Lo scrittore T.C. Boyle ne sceglie uno stravagante ma di sicuro effetto: Frank Lloyd Wright. Il protagonista del romanzo-biografia di Boyle (Le donne, Feltrinelli, pagg. 446, euro 20) è un giovane studente giapponese di architettura che giunge a Taliesin, nel Wisconsin, per conoscere Wright e studiare, eventualmente lavorare, con lui. Ma, più che dai progetti di Wright, Sato Tadashi viene coinvolto dalla vita non moralmente irreprensibile del maestro, fra tre mogli, un’amante ufficiale, altre appena più nascoste, studentesse generose e dieci figli.
Il romanzo rimane interessante solo se non dimentichiamo a quale personaggio si riferisce la storia, e riusciamo a leggerlo fino in fondo se siamo disposti a voltare molte pagine noiose, ripetitive, narrativamente superflue, proprio nella speranza di trovare qualche suggerimento che ci dica qualcosa che ignoriamo del grande architetto. Un architetto celebre ma molto contestato da un establishment politico e culturale che vedeva in lui un utopista critico della modernità, per nulla incline a celebrare quei fasti del progresso scientifico e industriale che rappresentavano la musa ispiratrice di tanta architettura razionalista, funzionale, politicamente corretta nel suo amore per una generica visione di sinistra del mondo, ma pur sempre plaudente alle presunte conquiste di civiltà del social-comunismo internazionale.
Wright dedicò la propria vita all’amore per le donne, come racconta Boyle, ma impegnando anche la sua genialità nel progettare un modello di città liberata da quel sentimento di oppressione che coglie chi vive nelle metropoli. La sua idea urbanistica ha sfidato la modernità con tutte le sue alienanti forme abitative, progettando una città utopica, Broadacre, che avrebbe dovuto rappresentare una visione dell’abitare assolutamente «antiurbanistica», antitetica ai modelli urbani che si facevano strada intorno agli anni Trenta del secolo scorso.
Siamo di fronte a una grande utopia architettonica che ci lascia immaginare come si sarebbe potuta sviluppare l’abitabilità dell’uomo in sintonia con l’ambiente naturale. Osservando le nostre città e le nostre case ci si accorge quanto siano lontane dalla realtà le idee di Wright. Eppure l’architettura esiste se ha in sé un’utopia sociale, se l’architetto progetta seguendo una propria visione del mondo, una propria idea dell’uomo, perché (lo si voglia o no) una pianta urbana, un tipo di insediamento abitativo rappresentano il modello di società che si vuole realizzare.
Per questo l’architettura deve vivere di grandi sogni, ma deve anche sapere come trasformare i sogni in idee e le idee in realtà. Quando non sa sognare, l’architetto abbandona l’abitabilità dell’uomo a esclusivi interessi economici e funzionali, e non è un caso che ciò che per primo viene sacrificato è la bellezza con i suoi valori di civiltà e di rispetto tra le persone.
Vediamo generalmente prevalere la «contro utopia» del pensiero di Wright, cioè la radicale separazione della città dalla natura: una realtà di fatto sotto gli occhi di tutti, fondata però su un’idea forte che ha accompagnato lo sviluppo della società occidentale verso la modernità. Oggi cerchiamo di correre ai ripari con palliativi che tuttavia non cambiano quell’idea.

Vogliamo il verde! esclamiamo in modo accorato e un po’ patetico; vogliamo più attenzione per la cura e lo sviluppo di parchi e giardini che indubbiamente consentono a noi cittadini una vita più gradevole, quasi si dovesse essere risarciti da ciò che ci è stato ingiustamente e violentemente sottratto. Ma i problemi posti da Wright rimangono, perché rimane quel modo di pensare la città che ha governato la modernità.

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