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Flick presidente della Corte Costituzionale, è l'ultimo approdo del ministro di Prodi

Il cammino fino alla guida della Consulta: da avversario del pool a Guardasigilli del Professore. Propose la separazione delle carriere, il giudice unico, l'amnistia di mani pulite. Sul caso Priebke cedette alla piazza e in barba alla sentenza rimandò in carcere l'ex ss

Flick presidente della Corte Costituzionale, 
è l'ultimo approdo del ministro di Prodi

Giovanni Maria Flick, nuovo presidente della Corte costituzionale, è un piemontese nel senso più pregiudizioso del termine, tranquillo, narcotico come il profumo della sua pipa, eccitante come chi per amico abbia Oscar Luigi Scalfaro: una «persona perbene» con tutte le sfumature che l'espressione comporta. Famiglia cattolica, padre tedesco, scuole dai gesuiti, soprattutto una borsa di studio all'università Cattolica di Milano divisa con Tiziano Treu e Romano Prodi, amici di una militanza di sinistra molto ovattata. La notte dormivano dai preti, all'Augustinianum, e sai che vita. Del resto era segnata, come vita: laurea nel 1962 e concorso da magistrato, mentre intanto cominciava a insegnare Procedura penale. Poi, dal 1976, avvocato: e anche qui sobrietà, serietà, competenza, seraficità. Un tipico corsivista del Sole 24 Ore, un tipico compagno di passeggiate di Francesco Saverio Borrelli a Courmayeur, un tipico cavaliere di Gran Croce. Poi, appunto, Mani pulite.
Flick ha amicizie e clienti importanti, è un eminenzina grigiolina, è il legale di Raul Gardini e tenta di trattare col Pool di Milano: «Ho visto il dottor Greco», disse Flick ai giornalisti, «e mi ha detto di venire domani: stiamo negoziando un atteggiamento morbido, arresti domiciliari o una brevissima detenzione». Trattativa tradita: il mattino dopo, il 23 luglio 1993, Gardini lesse Repubblica e si sparò pochi minuti prima della telefonata di Flick. Quando esplose lo scandalo dei fondi Sisde, poi, in autunno, la magistratura romana ricevette la visita di un curioso ambasciatore del capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro: Flick. E fu sempre Flick, quando i carabinieri bussarono alla villa torinese di Carlo De Benedetti, a spiegare che l'ingegnere era all'estero. Ed era stato Flick, quando il pm Antonio Di Pietro aveva rudemente maltrattato il teste Romano Prodi, il 4 luglio, a esserci in veste di amico e di legale.
Dal 1995 in poi il professor Flick comincia a esporsi su temi anche politici: il 14 marzo propone addirittura un'«amnistia condizionata» per Mani pulite e la cosa manda su tutte le furie il Pool. L'intento mira anche a evitare che molti imputati possano cavarsela con la prescrizione, e il tempo, nonostante i sarcasmi, gli darà ragione. Pochi mesi dopo Flick viene chiamato da Prodi nella squadra che dovrà stilare il programma dell’Ulivo, e significa che il Guardasigilli potrebbe essere lui. Così è. E il bilancio del suo Ministero, a riguardarlo oggi, pare sorprendente. Fu lui a introdurre il cosiddetto giudice unico: una rivoluzione volta a ottimizzare le risorse e a unificare Tribunali e Preture e Procure. È lui a fissare in soli sei mesi i termini per le indagini contro ignoti, arma impropria di molte procure per tenere sotto scacco chi in realtà non era ignoto per niente. È lui a tentare per primo la segretazione di tutti gli atti di indagine e il carcere per i giornalisti: esattamente come preannunciato, tra ben altri clamori, dal ministro Angelino Alfano. È lui a progettare una separazione tra pm e giudici che rendesse impossibili i passaggi di carriera dentro una stessa Procura. È lui a chiudere le carceri dell'Asinara e di Pianosa come da tempo chiedeva il centrodestra. È lui, dopo l’accusa di abuso d’ufficio irrogata a Prodi in ordine alla cessione della Sme, nel 1997, ad approvare una legge ad personam che immunizzava chi l'aveva appositamente nominato. Ed è lui, secondo soltanto a Filippo Mancuso, ad aver spedito più provvedimenti disciplinari in assoluto ai magistrati del Pool: ha mandato davanti al Csm Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, Paolo Ielo, Francesco Greco ed Ennio Ramondini. Ovviamente senza nessun esito.
In mezzo a questo, una pagina nerissima: il caso Priebke. Processato per l'orrenda strage di via Rasella (due volte, incredibilmente), il colonnello delle SS fu condannato a 30 anni e non all'ergastolo, con ciò rendendo possibile la prescrizione del suo reato: e fu pandemonio. Una folla armata di cartelli che definivano «infame» l'avvocato di Priebke e incitavano il colonnello a «fare la fine di Eichmann» (impiccato, con le ceneri sparse per simboleggiare l'annientamento della persona) prese ad assediare il tribunale militare e di fatto riuscì a modificare l'esercizio della giurisdizione. Flick scese tra i dimostranti e mediò, promise, inventò una fantomatica richiesta di estradizione dalla Germania per mantenere Priebke in carcere. Anche Montanelli in quei giorni si batté perché il colonnello potesse avere semplicemente un trattamento giusto. Non servì, e forse fu il punto più basso mai toccato da un ministro della giustizia.
Poi, se non proprio nera, un'altra pagina quantomeno scura. Il professor Flick, nel 2000, fu nominato giudice costituzionale: e fu lui a prendersi la responsabilità di firmare la sentenza che respingeva una legge che avrebbe, forse, cambiato in positivo il volto della giustizia italiana: ossia la già troppo dimenticata legge Pecorella, quella che prevedeva l'impossibilità della pubblica accusa di appellare le assoluzioni in primo grado. Una decisione, questa, un po' come quella incredibile su Priebke, che restituì un'immagine del professor Flick quale uomo non propriamente insensibile alle pressioni contingenti.

Diciamo così.

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