Le follie di Chavez e il mito di Mao

Tutti gli uomini politici hanno in qualche modo fame di una cosa soprattutto: la pubblicità. I dittatori non fanno eccezione alla regola, anzi la portano spesso agli estremi. Non c’era un’occasione più adatta per questo tipo di esercizi della riunione commemorativa per i 60 anni della Fao, l’agenzia dell’Onu destinata a combattere la fame nel mondo, quella materiale, da stomaco vuoto. Ma, lo si è visto e sentito ieri a Roma, anche la fame cui si accennava più sopra. E allora nell’esercizio si sono impegnati molti, ma due sono emersi per la loro retorica e, in buona parte, per la loro sfacciataggine: Robert Mugabe e Hugo Chavez. Sono differenti sotto molti aspetti, non soltanto geografici (Zimbabwe e Venezuela), ma anche perché il primo è un dittatore al cento per cento che nel suo Paese regna su quello che ha prodotto in un quarto di secolo di potere, che è soprattutto povertà e fame. Hugo Chavez, che formalmente dittatore non è perché è stato eletto ma che dei dittatori ha preso ideologie e demagogia, è alla guida invece di un Paese dall’economia momentaneamente florida, anzi in un vero e proprio boom che non va a suo merito ma all’aumento vertiginoso dei prezzi petroliferi nel mondo. Un povero stabile, dunque, e un ricco provvisorio; ma con tanti slogan in comune e con gli stessi nemici: il capitalismo e l’America; con i suoi alleati, evidentemente, uno dei quali, l’Italia, è il padrone di casa alla celebrazione della Fao, tanto è vero che Chavez, poco dopo, aveva un appuntamento con Berlusconi. Mugabe ha dato forse il tono all’offensiva retorica, pur fungendo sostanzialmente da presentatore. È toccato a lui avanzare il paragone diretto fra Bush e Hitler, Tony Blair e Mussolini. Tutti dei prepotenti «che vogliono decidere chi governa in Asia e in Africa, in Irak come in Venezuela».
Che «non si lascerà fare». Lo ha promesso Chavez, in un «j’accuse» di una buona mezz’ora, pronunciato a braccio con grande dispendio di energia gestuale e vocale. Un discorso in due parti. Prima la definizione e la denuncia dei «cattivi», che si riassumono poi in uno: gli Stati Uniti. Anzi, «l’Impero Americano, che è la minaccia principale per il mondo di oggi» e che si serve volta a volta di tutti gli strumenti di coercizione: «Colpi di Stato, sanzioni economiche, terrorismo» (omettendo di ricordare che grazie a un embargo contro il regime bianco precedente egli salì al potere). In questo disegno di dominazione si colloca «l’attacco imperialista contro l’Irak, che ha provocato un massacro dopo essere stato giustificato con le fole di inesistenti armi di distruzione di massa». Ma l’America è così cattiva soprattutto perché è un Paese capitalista, perché il capitalismo è la «Radice del Male», di tutti i mali, compresa la caduta dei valori morali. «L’attuale ordine economico mondiale è contrario alle leggi di Dio». Tanto è vero che «Cristo è stato un grande socialista. Il capostipite dei capitalisti, invece, è stato Giuda, che ha venduto Cristo» (anche se, ha aggiunto Chavez, «per pochi denari» e dunque non comportandosi come un buon capitalista). Questo il Male. La guarigione continua a chiamarsi per Chavez, come se niente fosse successo, negli ultimi settanta o ottant’anni nel mondo, comunismo. Che ha una lunga storia: «Da Cristo a Mao Tse Dong». La Cina è oggi il faro dell’umanità, perché «i cinesi hanno cancellato il loro Paese dalla mappa della fame». Non importa che lo abbiano fatto dopo aver scaricato Mao sotto il cui dominio la fame aveva raggiunto il suo apice assieme al terrore. «Senza Mao la Cina non avrebbe potuto sottrarsi a quella situazione di squilibrio in cui delle minoranze controllano le nazioni». Qualcuno fra gli ascoltatori può essere sobbalzato sulla seggiola ad ascoltare tali contorsioni: ma si trattava allora di novellini. Perché Chavez a Roma non ha fatto che ripetere tante altre sue enunciazioni, l’ultima delle quali al World Social Forum del 30 gennaio scorso a Porto Alegre. La traiettoria che egli tracciò in quell’occasione andava da Cristo a Simon Bolivar, a «quel medico argentino che girò l’America in motocicletta» e che si chiamava Che Guevara, a «quell’uomo con la barba, Fidel Castro», passando per Pancho Villa, Emiliano Zapata e Tupac Amaru, ultimo degli Inca e primo dei Tupamaros. Alla fine, naturalmente, Mao. Hugo Chavez si definisce alternativamente un bolivarista e un maoista. È un amicone di Fidel, ma non si limita alle chiacchiere: usa l’arma petrolifera finanziando il debito dell’Argentina, aiutando Cuba, fornendo alla Bolivia i mezzi per aprirsi all’esportazione di greggio verso la Cina. Che riceve già un quinto del suo fabbisogno dal Venezuela, che è anche il quarto esportatore negli Stati Uniti.

Che stiano attenti dunque «Bush e i suoi accoliti, perché se ci attaccheranno chiuderemo il rubinetto». Con un saluto, infine, al reverendo Robertson, che tanto ha fatto per conferire a Chavez un alone di martire proponendo demenzialmente che lo si elimini assassinandolo.

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