Fondi comuni: sul lungo periodo vincono i Bot

Ogni 9 mesi cambia tutto il portafoglio e i costi rimangono più salati che all’estero

da Milano

Ripetono di avere un dna improntato sul medio-lungo periodo ma negli ultimi sette anni i fondi di investimento hanno «sfilato» 91 miliardi dalle tasche degli italiani. Non che qualcuno li abbia rubati: è la ricchezza teorica andata distrutta tra le pieghe della gestione del risparmio nazionale. E la diagnosi non cambia limitandosi a un passo indietro di cinque anni: meno 18 miliardi.
Un’industria quella del risparmio gestito, secondo quanto emerge dal corposo studio redatto ogni estate da Mediobanca, ulteriormente indebolitasi nel 2006 quando l’asta degli utili si è fermata a 11,8 miliardi. La metà rispetto all’anno precedente (23,6 miliardi) mentre il rendimento medio netto del patrimonio calava dal 6,4% al 3,3% (3% nel 2004) sotto il peso delle perdite sui cambi (6,1 miliardi che salgono a 20,3 nel quinquennio) e sul reddito fisso (4 miliardi).
Il risparmio gestito ha vinto la battaglia contro i Bot solo negli ultimi 12 mesi. Visto che sui cinque anni un investimento, peraltro senza rischio, sui titoli di Stato avrebbe reso 0,8 punti annui in più e che dalla loro nascita i fondi italiani hanno fruttato il 6,7% medio annuo: 0,5 punti in meno dei Bot a dodici mesi (7,2%). Divario che, a livello di patrimonio, si traduce in una perdita prossima al 46%. Così come nel 2006 con l’8,6% i fondi azionari hanno superato solamente di misura le Borse mondiali (7,5%) ma sono rimasti distanti dal 19,5% fatto segnare dall’indice di Piazza Affari: scarso il rendimento anche quando il calcolo si allarga a cinque (0,5%) o dieci anni (3,9%).
Numeri che nella interpretazione di Mediobanca, il cui studio passa in rassegna 1.200 fondi per un patrimonio complessivo di 351 miliardi, nascondono anche la spiegazione del continuo assottigliamento dell’industria del risparmio gestito nazionale.
Alle prese, da tre anni a queste parte, con un’ondata di riscatti (39 miliardi il nuovo record) di gran lunga più ingente di quella delle sottoscrizioni. Il tutto a dispetto di prodotti che la normativa vigente rende «trasparenti» e di un quadro internazionale florido: nel 2006 il patrimonio gestito dell’industria europea ha toccato il picco 7.574 miliardi (più 22,5% a livello mondiale) e nei primi sei mesi di quest’anno la tendenza non sembra essere cambiata molto. Non solo, i fondi italiani continuano a perdere posizioni a favore dei prodotti esteri (7 miliardi la raccolta).
A pesare è certamente sia la differente fiscalità (il saldo dei cosiddetti strumenti esterovestiti è stato 0,7 miliardi) sia la «passione» del sistema bancario per prodotti alternativi più redditizi da vendere come le obbligazioni strutturate. Il quadro, tuttavia, è ulteriormente complicato dalle spinte centrifughe che continuano a indurre i gestori a movimentare l’intero portafoglio ogni nove mesi. Intervallo che si riduce a sette mesi e mezzo per le azioni, rispetto agli oltre 2 anni impiegati dalla concorrenza americana. Numeri da trading “attivo” che, vista la fotografia del 2006, non sempre si traduce però in rendimenti per il popolo dei risparmiatori.

Su cui gravano, invece, ancora commissioni più salate rispetto a quanto accade all’estero: 5,1 miliardi l’ammontare, sostanzialmente stabile rispetto ai 5,2 miliardi raggiunto nel 2005. Tradotto il costo medio è rimasto all’1,4% (2,5% per gli azionari; 1,1% per gli obbligazionari) a fronte del 1,1% massimo d’Oltreoceano.

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