«Fondi in crisi? Va ripensata la tassazione»

«Da un anno fermo in Parlamento il disegno di legge che cambia le regole»

da Milano

In un recente intervento, il governatore di Bankitalia, Mario Draghi, aveva parlato di «handicap serio». E sul tasto dolente della fiscalità dei fondi comuni di investimento batte anche Marcello Messori, professore di economia all’Università di Tor Vergata e presidente di Assogestioni, per spiegare la lunga crisi degli strumenti finanziari un tempo più amati dagli italiani. Che dopo un pessimo 2006 (18 miliardi di euro di raccolta netta negativa), si avviano a concludere l’anno in corso con un bilancio disastroso. In novembre, il rosso è stato di 9 miliardi, con il patrimonio ulteriormente dimagrito di 40 miliardi, a quota 1.060 miliardi, e nei primi 11 mesi il saldo sottoscrizioni-riscatti è negativo per una sessantina di miliardi.
«Non c’è dubbio che alla base della crisi del risparmio gestito vi siano cause contingenti - spiega Messori -. Certamente la polarizzazione della distribuzione del reddito a danno dei lavoratori dipendenti ha inciso sulla propensione al risparmio, ma fenomeni come questo non devono nascondere ragioni di tipo strutturale».
Quali sono, professore, queste cause?
«Per cominciare, le disparità nel campo di gioco».
Cosa intende dire?
«I fondi italiani soffrono di una fiscalità penalizzante rispetto a prodotti come, per esempio, i fondi esteri e i prodotti finanziari a carattere assicurativo. I primi sono soggetti all’aliquota sul maturato (calcolata sul valore di portafoglio, ndr), gli altri scontano l’imposta sul realizzato (sul venduto). Così si finisce per confrontare rendimenti non comparabili: quelli italiani, sono al netto della tassazione; quelli esteri, al lordo».
Una situazione che perdura ormai da anni...
«Sì, questa differenza di trattamento è cominciata nel 2002. Da allora, hanno avuto inizio i flussi negativi di raccolta».
C’è una soluzione di tipo politico in vista, in grado di stabilire regole uguali per tutti?
«Premesso che la politica economica e fiscale non dovrebbe punire le attività finanziarie, da un anno è in discussione in Parlamento un disegno di legge delega, su cui sembrava convergere il consenso generale. Bene: non è successo nulla. È il fallimento della politica».
I fondi sembrano però soffrire anche per altre ragioni...
«C’è anche un problema di asimmetria nella regolamentazione. Senza voler far polemiche, dico solo che anche in questo caso il rigore richiesto dev’essere uguale per tutti. Per la verità, i nuovi prodotti assicurativi finanziari vanno in questa direzione».
Perché una crescente fetta di risparmio viene convogliata verso i prodotti strutturati?
«Qui va rilevato un problema di opacità, di scarsa trasparenza. Molti risparmiatori sono convinti che le obbligazioni strutturate consentano un rendimento sicuro, a fronte di una minore rischiosità».
La colpa?
«I fondi pubblicano ogni giorno il valore delle quote e sono liquidabili in qualsiasi momento, eppure in Italia sembra che la trasparenza non sia un valore positivo. Non vanno però dimenticate le scelte fatte dai canali distributivi, che spingono questo tipo di prodotti».
D’accordo, ma i gestori non hanno nessuna responsabilità nella crisi?
«Inutile negarlo: c’è stata poca innovazione di prodotto.

Schumpeter diceva che è più facile innovare quando non c’è una forte crescita: i gestori si sono abituati troppo a una fase in cui i tassi di interesse reali erano elevati e crescenti ed era dunque ragionevole un portafoglio con una forte componente obbligazionaria. Ora, occorrono strategie diverse».

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