La cosa migliore che si  può fare per l’arte 
non solo italiana - è lasciarla  al suo vitale destino.  Ma decenni 
di assistenzialismo  statale potrebbero  averla resa troppo gracile 
per affrontare il mondo. È il momento  giusto per riconsiderare, verso 
il basso, il Fondo unico per lo spettacolo?  «Direi di sì - ci risponde
Filippo Cavazzoni, direttore editoriale dell’«Istituto Bruno Leoni», 
dove svolge attività di ricerca sulle politiche per la cultura e lo  
spettacolo -. La tendenza degli ultimi anni è stata quella di 
assottigliarlo, in linea  con i tagli orizzontali che stanno rimettendo
a posto anche gli altri ministeri, ma anche in linea  con una visione 
politico-culturale  che fra alti e bassi tenta di ridurre il peso dello
Stato nella vita  di tutti». 
Dicono gli addetti ai lavori che così la cultura finirà nella corsia dei malati terminali. 
«A ogni taglio del Fus si assiste a forti lamentele, ma i fatti che 
cosa ci dicono? I teatri continuano a rimanere aperti e i cinema a 
proiettare  film. Il taglio a 258 milioni per il 2011 è cospicuo, ma i 
conti li faremo tra uno o, se si vuole, tra due anni: se la situazione 
non sarà  cambiata più di tanto saremo autorizzati a pensare che questo taglio era giustificato». 
Gli enti lirici non lo pensano: sono  già in guerra. Perché? 
«La riforma che li riguarda, approvata l’anno scorso,  era 
inevitabile.  Il settore fa acqua da tutte le parti. Sono stati fatti 
diversi commissariamenti.  A fianco dell’intervento  statale, per loro
c’è anche  quello di Comuni e Regioni, un po’ meno delle Province: ma 
alla fine il totale dei contributi pubblici è molto elevato in 
assoluto.  E i risultati modesti, nel migliore  dei casi. Nel 2008 il 
settore ha ricevuto, tra Fus e altri aiuti pubblici e privati,  quasi 
400 milioni di euro. Gli organici sono sovradimensionati  e in gran 
parte a tempo  indeterminato. C’è stata una proliferazione delle 
indennità e un lassismo dei permessi, per cui un dipendente di una 
fondazione  svolge anche altre attività, tra le quali l’insegnamento al
Conservatorio ». 
E il ruolo dei privati in tutto questo? 
«Nel 2008 il loro contributo è stato di 26 milioni, meno del 7 per 
cento del totale. La trasformazione  degli enti lirici in fondazioni 
doveva attrarre capitali privati, ma è stata, dati alla mano, un 
fallimento.  Se si guarda poi chi sono questi privati il panorama è 
deprimente:  fondazioni di origine bancaria,  che per statuto devono 
intervenire  nella cultura, oppure soggetti che hanno una componente  
poco privata e molto pubblica,  come Camere di Commercio,  ex 
municipalizzate, eccetera. Il vero privato si muove o per puro 
mecenatismo o per avere un ritorno di immagine. Il grande assente,
in tutto questo, è però il profitto,l’unico incentivo capace di 
stimolare davvero una gestione attenta e proiettata verso i 
consumatori ». 
C’èun problemadi forma giuridica:  le fondazioninon possonodistribuire utili. 
«Giusto.Perché l’Arena di Verona  non potrebbe diventare una società per azioni? Sarebbe un
passo importante che cambierebbe  la configurazione di un sistema 
culturale  che si vuole forzatamente  legato al “non profit”. E perché 
non fare lo stesso discorso  per Pompei?». 
Altrosettore che nel2011 potrebbe  esplodere (nel bene per alcuni,  nel male per altri) è il cinema. 
«È un settore in cui l’intervento statale potrebbe assottigliarsi.
Nel 2010 abbiamo chiuso con un dato importante: in attesa di conferme 
ufficiali, è assai probabile che i biglietti staccati siano stati più 
di 120 milioni, la cifra più alta degli ultimi anni. Il cinema è in 
salute. Un disegno di legge del ministro  Bondi, proposto lo scorso 
luglio, toglierebbe il finanziamento diretto  agli autori affermati.  
Giustissimo, oltre che di buon senso. Più 
logico lasciare risorse a opere prime e seconde e ai documentari,  che 
hanno più difficoltà,  per ovvi motivi, a trovare produttori ». 
E i contributi sugli incassi? 
«Da abolire anch’essi. Sono ingiustificati.  C’è dell’incredibile. A 
beneficiarne maggiormente negli  ultimi anni è stata la società di 
produzione Filmauro di De Laurentiis.  Hanno preso  contributi pubblici
film che vanno da Italians , Natale a Rio , Natale in crociera e cinepanettoni vari. Grandi produttori prendono soldi dallo Stato per film di cassetta.  Robe da pazzi». 
Il mercato può fare la parte del Fus? 
«Quasi. I beneficiari  del Fus nel 2009 sono  stati 3200, di cui  750
complessi bandistici  che hanno ricevuto,  ciascuno, meno  di 1000 
euro. Perché  lo Stato deve distribuire  mance in  questo modo? 
Probabilmente  il costo di  gestione della pratica  è superiore al 
contributo  erogato. Per  non dire che lo Stato,  di solito, non tiene 
conto di ciò che fanno gli  altri livelli di governo come Regioni e 
Provincie, e dei soldi che erogano per conto proprio». 
Ci vorrebbe un Fus federalista? 
«Forse non ci vorrebbe nemmeno  il Fus. Recentemente Stéphane  
Lissner, il sovrintendente della  Scala, sulla possibilità di un 
reintegro  del Fus ha detto: “Ormai ho capito che in Italia un no può 
anche essere un sì”. Questo non è bello. Il Fus, con le sue cifre che 
volteggiano ogni anno, condanna  gli operatori dello spettacolo 
all’incertezza più assoluta. Fanno  affidamento su finanziamenti 
pubblici di cui non possono prevedere  l’entità. Come mettere in 
cantiere, allora, progetti a lunga scadenza? Il Fus li condanna a 
vivere  alla giornata». 
Nonsarebbemeglioadottareprocedure  automatiche? 
«È la via che si sta cercando di perseguire, ad esempio, nel cinema.  
C’è differenza notevole tra un intervento statale diretto e indiretto. 
Quest’ultimo è più neutro,  non si creano legami impropri  tra 
politica e cultura. Con il diretto,  invece, i criteri di scelta a 
proposito delle erogazioni passano  da oggettivi a discrezionali.
 Tax credit , tax shelter , sono tutte soluzioni giuste.
(3. Fine. Le precedenti puntate sono state pubblicate il 7 e 8 gennaio)