Il formaggio ha le sue Olimpiadi

Il formaggio ha le sue Olimpiadi

Paolo Marchi

Ho ancora in testa i profumi di Cheese, a metà settembre a Bra, che la prospettiva di poter formaggiare il prossimo fine-settimana a Verona, grazie all’Olimpiade dei formaggi, www.caseus-montanus.it, non fa che rinnovare quelle memorie. Ma non c’è solo da essere formaggiosamente felici. Oggi ad esempio è l’ultimo giorno di svolgimento, a Morbegno in Valtellina, della Mostra del Bitto, di un prodotto che adoravo e che ora adoro meno per la spaccatura tra i produttori. Abbiamo infatti chi si riconosce nel Consorzio di Tutela dei Formaggi Valtellina Casera e Bitto, www.ctcb.it (complimenti per la chiarezza dell’acronimo), e chi, proprio perché non vi si riconosce più, se ne è uscito e ha formato l’Associazione Produttori Valli del Bitto, www.formaggiobitto.com. Vi ritroviamo diciotto produttori storici, quelli che in Val Gerola e nella Valle di Albaredo producono Bitto senza ricorrere a integratori alimentari e fermenti industriali, ottemperando all’obbligo assoluto di sola alimentazione spontanea d’alpeggio. Il paradosso (e un confronto che ormai si protrae dal ’94) è che il nome Bitto è stato depositato e quindi appartiene al consorzio e non ai tradizionalisti, a chi può fare un prodotto mediocre e chiamarlo sempre Bitto e non a chi, proprio perché lavora secondo un rigore totale, l’anno prossimo rischia di perdere la paternità che gli spetterebbe a livelo di qualità, perché non rispetta il disciplinare. È ovvio che chi va contro il regolamento deve essere richiamato, ma si tratta di capire se la sua posizione tende a elevare la qualità o ad abbassarla.
Lo stesso sta accadendo in Piemonte con il Castelmagno, in teoria un capolavoro, in pratica quasi sempre un blocco di gesso che i casari di alpeggio e alta quota, pochi e poveri, difendono a denti stretti (la versione autentica) e un pugno di produttori del fondovalle producono, forti del disciplinare e delle possibilità economiche, in versione che ha poco da spartire con l’originale. Credo fortemente, e manifestazioni come Cheese lo dimostrano, che i disciplinari e le Dop garantiscono il più delle volte un prodotto igienicamente sano ma senza picchi di bontà assoluta, è una qualità standardizzata, frutto dei compromessi fatti per accontentare tanti, soprattutto chi ha più mezzi e quindi tende alla prepotenza.
A Bra mi ha commosso la Casa dei Caprini, quasi 150 prodotti di autentico latte di capra arrivati dal mondo intero, ognuno con una storia vera e non una chiacchiera del marketing. Gioielli dal Belgio, Cipro, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Irlanda, Israele, Italia, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti, Svezia e Svizzera. Quello norvegese, il Geitost del fiordo di Sogne, ha colore marron nonché consistenza e sapore della caramella mou, può non piacere ma riscalda il cuore sapere che la versione originale a latte crudo deve la sua sopravvivenza a una signora francese che 28 anni fa si trasferì in un angolino di Norvegia dove non si arrivava che via mare o sentieri. Quando nell’88 a Sogne arrivò la strada, tra i primi a presentarsi alcuni funzionari ministeriali che intimarono alla comunità di abbandonare la lavorazione con latte crudo. Lei resistette e ora può presentare con orgoglio un prodotto che è espressione di un territorio preciso e non una parodia della grande industria, un mix tra latte di capra, panna di latte vaccino e caramello. Allargandoci, ecco dal Tibet cinese lo Yak, prodotto con il latte di yak da monaci a oltre 4.500 metri di quota per dare un indirizzo a una collettività nomade, compresa una scuola per i bambini, dalla Romania il Brânza de Burduf affinato in corteccia di pino così come in Libano il Darfiyek trova dimora in una pelle di capra esattamente e in Armenia, proprio dove sorge l’Ararat, il Motal, un caprino e un presidio Slow Food presi a cuore in Italia da Beppino Occelli, www.occelli.it, viene affinato in vasi di terracotta.
Ogni formaggio, quando è vero, ha storie importanti da registrare, sono lo specchio di una collettività e quelli di capra a maggior ragione. Avrei fatto mattino con Carlo Fiori, il titolare ad Arona (Novara) della Luigi Guffanti, www.guffantiformaggi.com, per ascoltarne i racconti. Fiori è un affinatore che dà del tu a ogni forma. Se la capra è stato il primo animale addomesticato dall’uomo, purtroppo il pregiudizio verso l’animale selvatico persiste. Eppure la capra si nutre bene, liberamente, al pascolo spontaneo, di bacche, piccoli frutti, ginepro, genzianella, viole, erbe spontanee. E poi il suo latte non contiene colesterolo e quindi è digeribilissimo. Eppure c’è un però come ricorda Fiori: «L’informazione gastronomica in Italia tende al trombonesco, non cerca di informare le persone, di educarle. Quando leggo che noi italiani abbiamo più formaggi dei francesi dico che è vero, ma la cultura e il rispetto dove stanno? In un ristorante in Francia, ma anche nelle case, si può decidere se il piatto principale è di pesce, carne o formaggio. Da noi la frase che senti quasi sempre è “vuoi anche un pezzo di formaggio?”. Questo fa davvero la differenza tra la sostanza e un fastidio».
E allora ben venga in piazza Bra a Verona, dal 21 al 23 ottobre, l’Olimpiade dei Formaggi di Montagna organizzata da Caseus Montanus, www.caseus-montanus.it. Al Palazzo della Gran Guardia saranno in degustazione quasi mille forme diverse, tutte prodotte oltre i 600 metri di quota in America (Virginia e Vermont), Argentina, Austria, Bosnia Erzegovina, Canada, Ecuador, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Italia, Kazakistan, Messico, Polonia, Portogallo, Slovenia, Spagna, Svizzera e Zimbabwe.

Slurpissimo.

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