Forno, il pm che va a caccia di mostri

Milano «Le assoluzioni dei miei imputati fanno sempre un gran rumore, ma il 95 per cento delle sentenze mi ha dato ragione. Passo per un persecutore solo perché nessuno sa quante archiviazioni ho chiesto». Pietro Forno, procuratore aggiunto della Repubblica a Milano, è riassunto perfettamente in questa frase, estratta da una intervista di una dozzina di anni fa. Ovvero: convinzione solida delle proprie ragioni, rivendicazione dei risultati raggiunti, e segreto rigido sul lato sommerso del suo lavoro, quello delle decine di denunce che arrivano sul suo tavolo e di cui nessuno mai saprà niente. Perché Forno dall’inizio degli anni Novanta ha scelto di occuparsi in esclusiva del settore più cupo del diritto penale, il mondo oscuro dove si incrociano sesso e violenza.
Di questa branca del delitto - fino ad allora quasi inesplorata, affidata alla buona volontà se non all’improvvisazione - Forno è diventato un teorico, il costruttore di un modello investigativo che gli ha portato risultati importanti. Ma anche accuse ricorrenti di avere visto mostri anche dove non esistevano, di avere inquisito e arrestato innocenti. E se è vero che l’errore giudiziario è sempre in agguato, davanti a questi reati le sue conseguenze sono ancor più irreparabili.
Tra i primi a fare i conti con le asprezze del «metodo Forno» fu un suo collega: si chiamava Gilberto Barbarito, persona colta e mite, presidente del Tribunale dei minori di Milano. Sul suo tavolo arrivavano decine di segnalazioni di abusi ai danni di bambini e ragazzini, ed era Barbarito a decidere quali fossero meritevoli di essere segnalati alla Procura. Nel 1992, Forno arrestò un padre che aveva violentato una figlia, scoprì che il Tribunale dei minori era al corrente di un’altra impresa identica dell’uomo, e che non lo aveva fatto arrestare. Non ci pensò due volte, e denunciò il giudice Barbarito facendolo finire sotto processo a Brescia.
Barbarito non si riprese più, ma Forno ottenne un risultato decisivo: un protocollo che da allora in avanti obbliga assistenti sociali e giudici minorili a inviare immediatamente ogni notizia di abusi di cui vengano a conoscenza alla Procura, cioè a lui. Basta con i silenzi, le mediazioni, i tentativi di risolvere i drammi in silenzio. All’interno della magistratura, Forno impose la stessa linea della «tolleranza zero» che oggi - nell’intervista che lo ha fatto finire nel mirino del suo ministro - rimprovera alla Chiesa di non avere mai adottata.
Sarebbe riduttivo liquidare la ricetta di Pietro Forno nella caccia ai violentatori e ai pedofili come un approccio giacobino a un problema complesso. Forno ha anche elaborato una tecnica di indagine - fatta di analisi compartimentali e introspezione psicologica, oltre che di crudi rilievi medico legali e di testimonianze a volte contrastanti - che ha fatto scuola in tutta Italia. Ha creato una squadra investigativa a propria immagine e somiglianza. Ha portato per la prima volta sotto processo gli italiani del turismo erotico, i protagonisti degli stupri a pagamento nei Paesi del terzo mondo. Ha inquisito e fatto condannare centinaia di stupratori. Ma, dicono le sentenze, anche degli innocenti. E - caso più unico che raro - è stato attaccato e smentito pubblicamente da una collega della sua stessa Procura, Tiziana Siciliano, che dieci anni fa chiese e ottenne l’assoluzione di un tassista che Forno accusava di avere violentato la figlia. Il procuratore generale Borrelli prese le difese di Forno. Nelle motivazioni, la sentenza di assoluzione diede la colpa dello sbaglio ai due consulenti che avevano lavorato per il pm.
«L’errore giudiziario è la sentenza di assoluzione», disse una volta Forno davanti ad un’altro verdetto che gli dava torto. E d’altronde la sua carriera dentro la magistratura suona come un apprezzamento implicito dei suoi metodi. Da semplice pubblico ministero, Forno guidava una squadra di pari grado.

Nel 2004 il Csm lo nominò procuratore aggiunto a Torino dove, come «vice» di Marcello Maddalena e Giancarlo Caselli, ha importato il suo metodo nella caccia ai «porcelloni», come li chiama lui. Quest’anno è tornato a Milano, come procuratore aggiunto. Gli è stato riassegnato senza tentennamenti il «suo» dipartimento. E la caccia è ripartita.

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