Di solito, quando muore qualche poeta che in qualche modo ha ottenuto una qualche fama, si ghigna: ecco, ora la poesia è davvero morta! È come un ghigno di sollievo. È accaduto anche in questi mesi, dopo la morte di due poeti di grosso calibro come Edoardo Sanguineti e Luciano Erba. Ora attendiamo pazientemente la fine di Andrea Zanzotto, di Giovanni Giudici, di Giampiero Neri, di qualche altro epigono, e infine, finalmente, saremo liberi di latrare, la poesia è morta, viva la poesia!
È vero, dopotutto, che la poesia è cambiata, a volte svilita a slogan, a volte addomesticata come mangime per palati adatti a raffinati happy hour. Ma d'altronde, da chi dobbiamo attenderci la parola definitiva sullera, dai romanzieri che son messi peggio dei colleghi che fan versi? Così, per caso, in un noioso pomeriggio dagosto, senza nessuna speranza dincontrarlo, ho trovato un libro definitivo. Il libro si chiama Stazioni, lo ha scritto il poeta Giancarlo Pontiggia (autore di due libri importanti pubblicati per Guanda: Con parole remote, del 1998, e Bosco del tempo, del 2005), lo pubblica la Nuova Editrice Magenta (pagg.76, euro 17). Il libro è in realtà uno spartito teatrale per quadri, ricco di squarci lirici, ambientato a Milano, nel gorgo magnetico della città, che è il luogo dove nasce la democrazia e si perfeziona larte della parola, ma è anche il luogo dellorrore, dellestrema perdizione, è Atene e la città infernale di Dite allo stesso tempo. A parlare sono barboni violenti o barboni sapienti - come nella commedia antica, in cui il servo è più savio del proprio padrone - ci sono i ricchi sfrontati, ci sono madri e call center, ci sono gli angeli e cè la Morte, che sussurra «ma non sarebbe meglio viverle, le vite, prima di salvarle e perpetuarle in uneterna angoscia?». Superficialmente, nella struttura scabra, desertificata, assurda delle scene, impera - e non potrebbe essere altrimenti - il muso aquilino di Beckett: ma qui il proposito è opposto, la ricerca di senso è furiosa, furente, e tuttavia non cè, ora, adesso e qui, alcuna risposta sferica e plausibile, perché della verità «non è rimasto più niente, te lo giuro. Lho sperperata poco a poco, nel corso di questi anni», e daltra parte, «noi siamo usciti dal destino. Se lo ricordi: noi siamo liberi».
Proprio nella materia sapienziale di ogni scena, grottesca, cinica o sontuosamente poetica è il carattere, il gesto definitivo del libro, partorito, come ricorda il suo autore, nei «mesi che preludevano allinizio del nuovo millennio», incubato e custodito per dieci anni, e che tragicamente ci ammonisce che «nessuno ti salverà», che «si è soli... soli... nellabisso del Tempo...». Ma il senso del caos, dellimpossibilità di credere nella Provvidenza ma soltanto, se si è santi, accettare limpero del niente, non è funesto, funereo, infine insondabile (come capita ai romanzieri orientati su questi temi, penso ad Antonio Moresco, ad esempio), ma condotto con una lucidità che beatifica, salva (come salva ladamantina crudeltà delle Operette morali).
Il libro riassume le anime di Pontiggia, grande traduttore dei classici (Sallustio, Pindaro, la rustica moralità dei Disticha Catonis), cultore di una lingua purificata, granitica (le sue traduzioni da Paul Valéry), ma con asprezze memorabili, aperture drastiche (oltre a tradurre Sade, Pontiggia ha trapiantato per Guanda Bagatelle per un massacro di Céline, libro poi ritirato dal mercato).
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