Politica

La forza Onu schierata in Libano entro 10 giorni

Nelle clausole solo un richiamo generico alla liberazione dei soldati israeliani rapiti

Marcello Foa

E ora l’Onu accelera, con un obiettivo: inviare entro una settimana o al più tardi dieci giorni i primi soldati del contingente internazionale che dovrà garantire la pace nel Sud del Libano. Una missione quasi impossibile: di solito costituire una Forza multinazionale richiede almeno un mese. Ma questa volta è impossibile rispettare i tempi tecnici. C’è troppa tensione nella regione e troppe aspettative nel mondo. Domani mattina all’alba cesseranno le ostilità. Ma basterà la provocazione di pochi fanatici per distruggere il compromesso diplomatico elaborato con tanta difficoltà. E allora le Nazioni Unite devono fare in fretta.
Pochi, finora, i punti certi. Il contingente sarà composto da 15 mila uomini, tanti quanti ne schiererà l’esercito libanese. Tecnicamente si tratterà di caschi blu che opereranno sotto l’emblema dell’Unifil, la forza dell’Onu già presente nel Sud del Libano. Ma con una novità importante: contrariamente agli attuali 4200 osservatori, quelli in arrivo saranno armati. E bene. La loro sarà una missione di «peacekeeping» ovvero di mantenimento della pace e non prevede il disarmo degli Hazbollah, che invece spetterà alle forze regolari di Beirut. Ma il contingente avrà diritto a prendere «qualunque azione necessaria» nelle zone dove sarà dislocato per «prevenire azioni ostili di qualunque tipo» e «per proteggere i civili e assicurare la distribuzione degli aiuti umanitari». Ovvero ad usare la forza.
Ma tutto il resto è ancora da decidere. Per questo ieri sera il segretario generale dell’Onu Kofi Annan ha convocato i Paesi disposti a partecipare alla missione: la Francia, l’Italia, la Spagna, la Turchia, probabilmente il Brasile. Sul tavolo: il comando (che verosimilmente spetterà a Parigi), la struttura, il tipo di unità da impiegare, la ripartizione tra i singoli Paesi, le regole di ingaggio.
Non sono gli unici aspetti poco chiari nella risoluzione 1701 promossa dall’Eliseo e dalla Casa Bianca e approvata all’unanimità dal Consiglio di Sicurezza. Bush da un mese pretende che il cessate il fuoco conduca a una pace durevole nel Libano. Il testo, però, si limita a «invitare Annan a lavorare a una soluzione permanente in accordo tra le parti». L’intenzione è nobile: ma quali sono i termini operativi del mandato del segretario generale dell’Onu? E quanto tempo ha a disposizione? Settimane, mesi o anni?
E ancora: come sottolinea il quotidiano Haaretz, le Nazioni Unite chiedono l’«immediata liberazione» dei due soldati israeliani rapiti il 12 luglio, che però non rientra tra le clausole di applicazione della tregua. Dunque i due militari rischiano di rimanere prigionieri a tempo indeterminato. Inoltre la risoluzione si limita «a incoraggiare un’intesa sul rilascio dei prigionieri libanesi detenuti nello Stato ebraico», che invece era stata chiesta a gran voce sia dal governo di Beirut che dagli Hezbollah. La stessa vaghezza è riscontrabile riguardo le fattorie di Sheba, la cui sovranità è contesa da Israele, Libano e Siria.
E soprattutto: davvero il governo libanese intende disarmare gli Hezbollah? Bush lo ha ribadito ieri con forza al premier Siniora durante un colloquio telefonico. Ed è su questo punto che il compromesso dell’Onu rischia di crollare.
Ma questo non è il momento delle recriminazioni. Parigi esalta «la stretta collaborazione con gli Usa, in uno spirito di fiducia reciproca». Lo stesso Bush «chiede con urgenza ai leader mondiali di trasformare le parole in fatti». Putin invoca «il rigoroso rispetto della risoluzione» e si mostra in sintonia con la Casa Bianca nell’invocare un processo che «porti a una soluzione globale per il Medio Oriente». Sono soddisfatti i governi di Londra, Berlino, Madrid e il rappresentante degli Esteri della Ue Solana.
La parola d’ordine è: speranza per il Libano. E compiacimento per il nuovo corso della politica estera Usa. Condoleezza Rice aveva lasciato intendere in primavera, che si apprestava a rinunciare «alla diplomazia del cow boy» cara ai neoconservatori. Ma pochi le avevano creduto. Il conflitto tra Israele e gli Hezbollah era un banco di prova. La mediazione di Condi non è stata impeccabile e tantomeno il risultato finale. Ma nessuno ora dubita più delle sue intenzioni. L’America torna, davvero, a prediligere il dialogo.
marcello.

foa@ilgiornale.it

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