«Fotografo Milano all’alba È il suo volto più sexy»

«L a fotografia è bellissima ma non si deve dire": perché? Perché scotta. Quanti saggisti - Roland Barthes, Susan Sontag, John Berger - hanno difeso in retroguardia il fascino di quest'arte che non è mai riuscita a mettersi al fianco della letteratura, della musica. Ma ecco, sempre e solo in retroguardia, con la nascosta sensazione che la fotografia era un po' più vicina delle concorrenti al «cuore selvaggio della vita», direbbe James Joyce adulto osservando il Joyce adolescente. La fotografia arde come la memoria, come una verità sentimentale: ogni scatto è allo stesso tempo un gesto di amore e di addio.
C'è un celebre fotografo - nato a Losanna nel 1957, cresciuto a Pioltello, oggi residente tra Milano, il Chianti e il resto del mondo - le cui opere stanno sempre a un passo da questa adolescenza del cuore, età che solo i cinici collocano tra due date. È Toni Thorimbert.
«Vengo dalla periferia milanese degli anni '70, un luogo e un'epoca dove era facile perdersi, nella droga per esempio: molti ci sono rimasti. Mio padre era grafico, aveva un suo coté artistico che ho avuto la fortuna di ereditare, e così la fotografia mi ha letteralmente salvato la vita. Per me, era la possibilità di guardare senza essere preso all'interno delle situazioni».
Forse oggi non sarebbe più possibile...
«È così, purtroppo. Ricordo me stesso nella nebbia di Segrate, col mio art director della Mondadori sul sellino posteriore del Garelli. C'era una vicinanza incredibile con le star con cui dovevi lavorare. Per questo iniziai come ritrattista: il ritratto non era ancora quella "figura promozionale" che è diventata».
Cos'è cambiato dagli anni '80?
«Ogni cosa è più formale, c'è più separazione. Un ventennio fa stavo fotografando John Malkovich a Parigi, all'improvviso mette dentro la testa Bernardo Bertolucci: "Ehi, poi vediamoci giù di sotto". Era tutto molto alla mano. Poche settimane fa, invece, stavo ritraendo Jennifer Lopez, altra persona socievole, forse per via delle origini umili: ma era come se io e lei fossimo due naufraghi, circondati da salesmen compunti e seriosi. Oggi ognuno lavora per sé, una volta le esigenze delle parti non erano divergenti».
Così sei passato alla fotografia di moda.
«L'esperienza del ritratto si era andata ingessando. Per anni ho potuto fotografare persone senza nessuna relazione con quello che avevano "in uscita": giusto solo per farne il ritratto. A un certo punto, tutto cominciò a diventare marketing. A metà dei '90 scelsi la moda, paradossalmente un mondo più onesto. Cercai di sviluppare le mie tematiche interiori nella finzione della fotografia pubblicitaria».
E con la moda veniamo a Milano. Che ne pensi? Come la vivi?
«È la città meno sexy del mondo. Quella che fotografo di meno. A livello professionale, non sono così sicuro che sia la "città del fare". Non accade niente, anche se la qualità di vita di chi partecipa a questo niente è piuttosto alta. Ritrovo Milano solo di notte, quando non c'è nessuno: uno scenario valido, che forse di giorno andrebbe abitato con un altro spirito, un altro desiderio. Eppure, per esempio, si è voluto cancellare il cuore di Bros, in viale Papiniano. Probabilmente non sapevano che farne. E non avevano altro da metterci».


E la foto che accompagna questa intervista?
«Scattata dalla mia stanza al sesto piano dell'hotel Gallia, prima di andare in aeroporto. È un'immagine che oblitera il suolo, che inquadrato diventa subito traffico e folla, soprattutto in una città di transito. Era l'alba, l'ora in cui Milano ti dona ancora tutta la sua potenziale bellezza».

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