Francesco Trombadori e la luce della Sicilia

Una pittura che trasforma il legame profondo con la terra d’origine in un linguaggio universale vicino ai temi di «Valori Plastici»

Il «ritorno all’ordine» lo trovò pienamente consenziente. Ma a modo suo. Sostenitore del programma estetico propugnato da Mario Broglio nella rivista Valori Plastici, con alle spalle una giovanile attrazione per il divisionismo, estraneo alle scalmane futuriste, il pur «classico» Trombadori rimase anche immune da certo monumentalismo classicheggiante novecentesco.
Vista con sguardo odierno, la pittura del siracusano Francesco Trombadori trova forse la sua più felice definizione in quella luce «di alto meriggio» che Roberto Longhi individuò nei suoi paesaggi degli anni Cinquanta, definizione riportata dal figlio Duccio nel raffinato catalogo (Silvana Editoriale) per la recentissima antologica del padre che ha raccolto a Siracusa alla Galleria Civica Montevergini una quarantina di opere dell’artista, dagli esordi alla maturità.
«Francesco Trombadori e la Sicilia» è il tema della mostra, ma va subito precisato che la sottolineatura del profondo legame fra il pittore e la sua terra d’origine (era nato nell’aura greca e barocca dell’isola di Ortigia da un’antica famiglia di incisori e ceroplastici) segna una caratteristica ma non certo un limite del suo linguaggio. Sicilianissimo, Trombadori. Scrisse di lui Leonardo Sciascia che «del suo nascere a Siracusa, degli anni dell’infanzia e della prima giovinezza che vi ha passato, del suo esserci anche standone lontano, la pittura di Trombadori è ineffabilmente, segretamente intrisa...». Anche negli anni in cui dipinse assiduamente Roma, gli anni in cui fece parte del fervido cenacolo di Villa Strohl-Fern (dove è ancora conservato il suo studio) Trombadori ebbe la Sicilia e il suo paesaggio presenti agli occhi della mente e del cuore. E quella Sicilia continuò a ripensare: piccoli casolari perduti nella solitudine, bianche «trezzere» che si perdono nella campagna, rigogliosi fichi d’india immobili nella calura, i papiri verde pallido della Fonte Ciane.
Ma attenzione, questa Sicilia non è mai naturalistica né tantomeno bozzettistica. E neppure troppo intimista. Cultore rigoroso dei «valori puri» della pittura, Francesco Trombadori accosta sulla tela i colori e i volumi tenendo ben presente la lezione di Cézanne e puntando a misurate, quasi «astratte» geometrie, sottolineate dalla luce. Una luce diffusa, mai bruciante, cieli che virano al grigio, ombre leggere, una tavolozza che negli anni si fa sempre più scarna. Non per nulla Trombadori fu amico ed estimatore del grandissimo «minimale» Giorgio Morandi.
I suoi paesaggi (non solo siciliani) sono immersi, come i suoi calmi ritratti, in un’aura sospesa e incantata. Immagini fuori del tempo eppure al loro tempo legate.

Il tempo in cui la grande eredità italiana della «pittura pura» - da Piero della Francesca ad Antonello da Messina - ancora alitava sul linguaggio poetico dei moderni. Il tempo in cui il volto d’Italia non era ancora stato distrutto.

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