La Francia e il conto aperto con la Storia

Alberto Indelicato

«La nostra società ha la funesta inclinazione a rinnegare se stessa» ha lamentato l’ex presidente francese Valéry Giscard d’Estaing. Ed il ministro dell’Interno Nicholas Sarkozy ha avanzato una mesta previsione: «Finiremo per scusarci di essere francesi». Non sono soltanto i francesi ad avere l’abitudine di attribuirsi tutte le colpe ed a chiedere continuamente perdono per il loro passato. È una sorta di malattia che ha contagiato tutta l’Europa. Essa è stata diffusa da una intellighenzia, che nell’anticolonialismo retroattivo ha trovato consolazione per il mancato crollo del capitalismo ad opera del comunismo, evento su cui aveva contato. D’altro canto essa è quasi un balsamo per le frustrazioni di popoli che, a causa delle loro tradizioni anchilosate, hanno perduto la corsa della modernità. Questi ultimi si sentono incoraggiati dai primi nel chiedere continue riparazioni per i pretesi torti subiti. A costituire però il fenomeno psicologicamente più interessante sono quegli intellettuali sempre alla ricerca di episodi più o meno remoti - le crociate, lo schiavismo, le guerre - da rinfacciare ad un Occidente senza cuore e senza giustificazione alcuna. Ma le crociate non vennero dopo la conquista araba di territori e popolazioni dell’impero romano? Alla tratta dei negri non parteciparono attivamente anche gli arabi?
A seguito dello “scandalo” della legge del febbraio 2005, che raccomandava di non dimenticare nell’insegnamento gli aspetti positivi della presenza francese nei territori d’Oltremare, le sinistre d’Oltralpe abitualmente così divise si sono ritrovate tutte unite per denunciare in una grande manifestazione antigovernativa «le spaventose violenze e le ingiustizie generate dalla colonizzazione, la distruzione di culture e di lingue, il saccheggio delle risorse naturali, l'esacerbazione delle tensioni tra i popoli...», tutte malefatte degli europei. Emerge da queste denunce la rappresentazione di un mondo precoloniale caratterizzato dall’armonia tra popolazioni angelicate e di società ireniche, in cui prosperava felice un buon selvaggio alla Rousseau capace di utilizzare magistralmente le risorse regalategli dalla natura - il petrolio, il gas, i minerali - per migliorare il suo tenore di vita e che sapeva tutelare e tramandare la sua cultura e perfezionare la sua lingua (anche se non era in grado di scriverla...). Naturalmente si tratta di una rappresentazione che non ha alcun riscontro nella realtà storica. La violenza non è stata introdotta nel mondo né dagli europei, né dal capitalismo ed ha caratterizzato le vicende umane sin dall’epoca di cui di esse si ha memoria. Quanto alle ingiustizie della colonizzazione, non dovrebbero essere giudicate con i criteri attuali, ma con quelli dell’epoca in cui furono compiute. La semplificazione negativa è però utile a coloro che la praticano perché dà loro la coscienza di una superiorità morale nei confronti di chi si ostina a ragionare criticamente, permettendo loro di continuare a sentirsi «dalla parte del progresso» dopo i fallimenti del loro recente passato.

È veramente un progresso quello che intende conservare in seno alla nostra civiltà le “culture” degli immigrati, che predicano l’ineguaglianza tra i sessi, le pene corporali, la morte per lapidazione delle adultere e simili barbarie? A paradossi del genere conduce la proterva volontà di rinnegare e condannare la nostra storia ed una identità composta anche di ombre, ma in cui piaccia o non piaccia le luci sono prevalenti.

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