Cultura e Spettacoli

Franck Thilliez, anatomia dell’orrore

Il problema dei libri geneticamente modificati dal cinema è l’impossibilità di reggere l’«unità d’effetto» teorizzata e messa in pratica alla grande da Edgar Allan Poe. Il rilievo vale soprattutto per gialli, noir e via colorando. Cioè per i romanzi di una certa stazza con uno scheletro fatto di suspense, muscoli dilatati da uno o più crimini e nervi stimolati dall’indagine dei buoni che braccano i cattivi. Opere di questo tipo dovrebbero sempre essere consumate senza soluzione di continuità, come accadeva per i vecchi gialli Mondadori, divorati dai pendolari sui treni.
Che nelle vene di La stanza dei morti di Franck Thilliez (Editrice Nord, pagg. 354, euro 18, traduzione - con alcune smagliature - di Chiara Salina) scorra almeno un quarto di sangue cinematografico lo annuncia già il lancio pubblicitario che parla di «risposta europea al Silenzio degli innocenti». E lo conferma ogni pagina. L’autore (esperto di informatica travolto in patria da un insperato successo) si mette di buzzo buono prima nell’arruffare, e poi nel dipanare la sua matassa. Il meglio lo dà non quando cincischia in descrizioni d’ambiente o in digressioni sociologiche (i minatori di un tempo, i disoccupati di oggi...), ma quando alza il ritmo, gettando l’eroina poliziotta Lucie Henebelle e i suoi colleghi nell’occhio del ciclone.
Siamo nel Nord della Francia, Dunkerque e dintorni, ai giorni nostri. Due giovani alla deriva sbattono in auto contro un grosso problema: un uomo che si trova lì, in una foresta di pale eoliche, per risolvere a sua volta un problema ancor più grande. All’illustre clinico hanno infatti rapito la figlioletta e nella borsa ha i due milioni di euro del riscatto. Mal gliene incolse. A lui che muore sul colpo e ai due che, drogati dal gruzzolone, perdono subito il senso della realtà (e anche qualcos’altro). È soltanto il prologo di un’angosciante rappresentazione che conduce, orrore dopo orrore, alla Bestia assassina, la quale sfoga le proprie turbe sugli esseri più indifesi. Quale scintilla ha appiccato l’incendio nella sua mente malata? Qualcuno le fa da spalla, nella sequenza da incubo che mette in atto? Come incastrarla senza mettere a repentaglio altre vite? Lucie coglie la palla al balzo, non tanto per far carriera, quanto per dare una sferzata a un’esistenza grigia allietata soltanto da due frugolette di sette mesi, opportunamente parcheggiate dalla nonna prima che si scateni il pandemonio di mutilazioni, dissanguamenti, torture e incontri troppo ravvicinati con personaggi poco raccomandabili ai deboli di stomaco.
L’accostamento al Silenzio degli innocenti non trova motivo soltanto nell’efficienza dell’ufficio stampa. Thilliez se la cava piuttosto bene con l’introspezione della mammina, degna collega della Clarice Sterling scritta da Thomas Harris e incarnata alla perfezione da Jodie Foster nella pellicola di Jonathan Demme. E quasi, alla lunga, si lascia intenerire dalla sua fragilità, dalle sue ossessioni, persino dalle zone d’ombra della sua psiche. Perché ne ha anche lei, la tormentata investigatrice, di zone d’ombra. Sembrano zavorre messe lì per impedirne il decollo. Invece saranno il suo punto di forza. Insomma, La stanza dei morti possiede tutti i crismi per diventare la sceneggiatura di un buon film ad alta tensione (i diritti cinematografici sono già stati venduti). Se la Foster non sarà disponibile, tanti auguri al regista. E auguri soprattutto a truccatori e addetti agli effetti speciali.

A meno che non abbiano preso 30 con lode all’esame di anatomia.

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