Ma davvero Franco Branciaroli è alla vigilia dei sessant'anni? Nessuno lo direbbe perché da sempre l'attore più versatile e dotato della sua generazione ha talmente giocato con se stesso da autorizzare il sospetto di essere non un personaggio riconoscibile ma un folletto mutante al punto da ingannare critici e spettatori, ammiratori ed emulatori. Perché lui è un attore tragico che, sollevando un sopracciglio, si tramuta in un carattere esilarante sollecitando l'estro dell'attimo fuggente e l'intuizione del momento che passa senza per questo tradire mai la tela di fondo del personaggio che interpreta.
Sicuro di sé al punto di apparire arrogante quando, in realtà, è solo impietosamente sincero, a volte approda ai vertici del misticismo (resta indimenticabile, negli anni settanta, la sua raffigurazione di Cristo nel Gesù di Dreyer) per scendere subito dopo a precipizio lungo la scala tonale e diventare, agli occhi del pubblico, il più impavido e tracotante degli Ispettori Generali che abbiano mai visitato la gran madre Russia. Primattore nato e, insieme, giocoliere sopraffino a volte ancor oggi stupisce per la sua incontenibile voglia di presentarsi come un teen-ager assorto in misteriosissimi giochi. Ricordate come lo vide Trionfo, il suo primo maestro, quando lo chiamò, nel Peer Gynt, a giostrare su un puledrino di legno mentre, dietro e davanti a lui, il palcoscenico si copriva di neve e, sotto quella bianca coltre, spuntavano le sfingi dell'antico Egitto? Ecco, Franco è così. Un adulto irsuto e fiero, coi piedi spavaldamente piantati a terra, ma con un'incontenibile voglia di giocare. Che spesso felicemente lo travolge quando, tanto per fare un esempio, entra in scena nelle vesti di Amleto con tanto di macchina da scrivere per ricordarsi le parole giuste da dire a un'Ofelia che l'ha visibilmente stancato ma subito abbandona in un angolo quell'assurdo strumento per sfidare altezzoso una madre-regina che, quando mise in scena da protagonista e regista il capolavoro shakespeariano, inalberava i baffi e la candida barba di Giovanni Raboni. Difficile dire inoltre se Franco, bellissimo a vent'anni tanto da essere definito un angelo caduto quando, in Nerone è morto?, la pièce iconoclasta di Hubay, si permetteva di sfidare con un ironico riso di superiorità persino Wanda Osiris, abbia mai avuto il culto della propria indiscussa prestanza. Forse che sì forse che no. Dato che, per incarnare un Re Lear carico d'anni non esitò a ingrassare fino all'inverosimile per poi stupire tutti quanti quando poco dopo nelle vesti di Otello sfoderò un fisico scattante da pantera nera. Avrebbe potuto far l'attor giovane fino ad oggi e invece, assecondando la sua inesausta voglia di sperimentare il nuovo per mettersi alla prova come un boxeur deciso ad affrontare il salto in lungo, in una delle pièce che ha scritto, Lo zio, ha voluto e saputo truccar le carte al punto da presentarsi, tarchiato e quasi squassato dalle ingiurie del tempo, nelle vesti di un Hitler esule nell'inferno sudamericano. È stato l'interprete prediletto di Ronconi e il solo contendente che, sul palcoscenico, Carmelo Bene abbia voluto vicino. E al cinema è passato con uguale disinvoltura dal set di Jancso a quello di Antonioni per trovare poi una collocazione tutt'altro che provvisoria nell'harem pruriginoso e sarcastico di Tinto Brass. Che, come lui, è un altro incontenibile giocoliere. E quando poteva tranquillamente riposar sugli allori tra un Molière oggi e un Sofocle domani, eccolo d'improvviso prorompere in una Medea dove, tanto per sfottere le vecchie consuetudini del teatro digestivo, ha indossato il reggiseno per prorompere nelle supreme invettive della maga.
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